Questa gigantesca casa di produzione cinematografica si è appropriata dei principali strumenti d’accesso all’emotività di grandi e piccoli. Quattro generazioni di bambini – nonni, genitori, noi (25-35 anni) e i nostri figli – tutti istruiti da un senso morale fortemente atlantista. Disorientati, senza rendercene conto, da stili di vita lontani dal modello occidentale. Ma anche – questo bisogna riconoscerlo – orientati verso “buoni principi”. Convinti oppositori di circhi e pellicce. Bravi a diffidare degli sconosciuti, ma anche ad andare oltre le apparenze. Vegetariani traumatizzati dalla brutta fine delle ostrichette e dai cacciatori senza scrupoli (basta il binomio di parole “mamma Bambi” a far riaffiorare le lacrime). Mammoni troppo legati alla famiglia e ai ricordi d’infanzia, incapaci di buttare via i vecchi giocattoli.
Sì, la Disney ci ha riempito la testa di sane abitudini – limitanti, ma sane. Da decenni essa ha indovinato e poi ristabilito i gusti del suo pubblico. Gli elementi sono abbastanza semplici: bambini o cuccioli umanizzati, spesso orfani, con una diversità che li rende in qualche modo speciali, accompagnati da un fedele compagno – goffo e devoto, spesso quadrupede, che a un certo punto della storia viene allontanato per poi tornare sul finale – un nemico, talvolta anch’egli buffo, una verità dal passato che torna a galla e un immancabile, dogmatico trionfo del bene sul male (“And they lived happily ever after”!).
Con l’acquisizione della Pixar, la Disney è anche riuscita a darsi una rispolverata. Non solo nella grafica, ma anche – e soprattutto – nella velocità dei dialoghi, nelle battute incalzanti e adattate al senso dell’umorismo moderno. Un’evoluzione darwiniana, niente di speciale, che dimostra però ancora una volta come questa grande fabbrica di sogni riesca a tener duro, a non mostrare mai un solo capello bianco nonostante la veneranda età, a penetrare e commuovere anche i più scettici anti-capitalisti/conformisti.
Coco (2017) è l’ennesimo esperimento ben riuscito, anzi, meravigliosamente riuscito di Disney Pixar. Tutto è più moderno: lo slittamento del titolo, non più dedicato al protagonista della vicenda; nessuna storia d’amore; niente prìncipi e re (vogliono, infine, dirci che i soldi non fanno felicità?). Eppure il cambiamento non disorienta nemmeno il più tradizionalista dei fan. La Disney si modifica restando sempre uguale a se stessa, ovvero alla casa di produzione cinematografica vicina ai gusti della più consistente fetta di pubblico cinefilo, e non solo.
Da anni, la Disney risponde all’esigenza di staccarsi dal modello “bianco” e introduce personaggi come Pocahontas, Tiana e ora – quale provocazione migliore nell’America di Trump? – un personaggio messicano. C’è una spietata ambivalenza sotto la pelle pseudomoralista della Disney, una sorta di machiavellico fine che giustifica loschi mezzucci da imprenditore multinazionale. Lo sappiamo che il segreto di tanto successo nasconde manovre che farebbero orrore al più cattivo dei cattivi Disney, lo sappiamo che quei gadget di cui non riusciamo a fare a meno mostrano con sbeffeggiante ironia la loro etichetta “made in China” o “made in Vietnam”, e quante volte abbiamo sentito la frase: «Bambini che fabbricano giochi per altri bambini».
Eppure la Disney ci ha insegnato a rispettare i più deboli, ci ha sensibilizzati alle sofferenze degli animali, ci ha guidati alla scoperta di culture diverse e ci ha istruiti alla tolleranza. Se l’abbia fatto per migliorare il mondo, o solo per difendersi da altre accuse e assicurarsi la benevolenza di associazioni anti-razzismo/droga e rock’n roll, non è dato saperlo. Chi assocerebbe alla casa di produzione che ha creato Dumbo e WALL•E un mostro mangiasoldi senza scrupoli? Ben poche persone, magari quelle che – figli di intellettuali di sinistra no-global – non hanno subito il fascino di quella magia, di quelle storie a lieto fine, di quell’atmosfera fatta di milioni di colori e musica che sembra sussurrarti all’orecchio: «Sei a casa».
Fortunati loro, che possono guardare alla realtà dei fatti con sguardo critico. O fortunati noi, che siamo cresciuti credendo che “quando hai la gioia nel cuor […] puoi volar”?
Anna Fusari
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