Leggendo attentamente le bozze di questi taccuini, un paio di volte ho temuto che il mio libretto potesse rivelarsi, nella migliore delle ipotesi, nient’altro che una serie di reminescenze buttate giù in modo convulso. Ebbene, sia pure. Non si tratta d’altro che di appunti, frammenti di autentico turbamento, fumo ed eccitazione di quei tempi – delle qualità che allora e lì presero forma. La guerra stessa, con tutto il fermento sociale che l’ha preceduta, può essere in realtà descritta nel miglior modo possibile proprio con questa stessa parola: convulsione.
Fino al 1862 Walt Whitman non aveva avuto alcuna esperienza diretta della guerra, da New York seguiva il conflitto sui giornali e saltuariamente si recava a far visita a malati e feriti. Sul finire di quell’anno, però, venne a sapere che il fratello George era stato ferito in battaglia, nel Maryland, e decise quindi di mettersi in viaggio per raggiungerlo nel campo ospedaliero dov’era ricoverato. Da quest’episodio comincia la scrittura dei Taccuini della guerra di secessione (1875-76). Un insieme di foglietti tenuti insieme con una spilla e consegnati alle stampe senza alcuna revisione; ancora macchiati di sangue. È risaputo che la guerra civile americana ebbe un solido impatto sulla coscienza dell’autore di Foglie d’erba e che in quei giorni si sarebbe formato il pensiero e la sensibilità di chi con la sua poesia offrì agli americani quella che è stata definita la loro «Bibbia democratica». Infatti dopo aver rivisto il fratello, trovato già in via di guarigione in un ospedale di Washington, Whitman ebbe la possibilità di guardarsi intorno e scoprire uno scenario atroce: arti amputati accatastati ai muri, soldati morti in battaglia, altri soli ad attendere la morte su un esile lettino, e altri ancora, in buono stato di salute ma tranciati nell’anima; privati della loro giovinezza.
Fu così che Whitman comprese il suo ruolo nella guerra, e la sua vera vocazione: aiutare e incoraggiare gli ammalati. Ogni giorno caricava il suo zaino di tabacco, carta, buste, frutta, si procurava del denaro e poi andava negli ospedali a tener compagnia ai soldati. Per loro scriveva lettere, si procurava cibo, offriva denaro per permettere il rientro a casa, leggeva la Bibbia, Shakespeare; e non diceva mai di essere un poeta. Come scrivono Livio Crescenzi e Silvia Zamagni nell’edizione curata per Mattioli 1885, e che per la prima volta ci permette di leggere in italiano i Memoranda during the war, «non era tanto un autentico infermiere, quanto un guaritore dello spirito, un compagno affettuoso o “zio”, le cui capacità curative erano comunque profondamente rispettate in un momento in cui gli interventi del medico spesso facevano più male che bene». C’è insomma un’ampia percezione dell’umanità nei gesti del poeta e l’enorme spirito democratico che caratterizzò poi la sua produzione.
E ovunque tra queste innumerevoli tombe – ovunque nei numerosissimi cimiteri dei soldati della nazione (ce ne sono più di settanta) – all’epoca nelle vaste trincee, nei depositi degli uccisi, Nordisti e Sudisti, dopo le grandi battaglie – non solo dove passavano in quegli anni i crudeli affusti dei cannoni, ma sparsi ovunque in tutti i pacifici angoli della terra – vediamo e vediamo, e per secoli continueremo a vedere, sui monumenti e sulle lapidi, singola o collettiva che sia, a migliaia o a decine di migliaia la significativa parola: SCONOSCIUTO.
Antonio Eposito
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