Le parole addosso. “Quel che non sai di me” di Silvia Meconcelli

La parola salva. Di fronte al Reale dell’esistenza, la parola – quando è quella dell’Altro (un romanzo) o è quella che si rivolge a sé stessi facendo biografia – permette il rifugio dentro un mondo intimo, dove coltivare quella virtù immaginifica indispensabile a sopportare i lacci di una sofferenza che respinge ogni simbolizzazione.

Ho sempre maledetto – ricorda Nina – la lana ruvida nel collo e i giornali che mi mettevi sotto quel cappottino striminzito, quando ero più piccola […]. Dicevi che mi paravano dal freddo, ma io non potevo muovermi fasciata con tutta quella carta.

Quel che non sai di me è il romanzo d’esordio di Silvia Meconcelli, la confessione biografica che una donna – Nina – fa a sua madre malata. Il tempo fugge e Nina sente di dover fare “opera” della sua vita. Per fare questo aspetta di trovare sua madre nella posizione più disposta ad ascoltare, la posizione finalmente “ferita” da cui è possibile capire senza chiedere estenuanti spiegazioni.9788832810554_0_0_0_75

Per salvare l’integrità di sé stessi, spesso è necessario affilarsi come una lama. Dopo aver per tanto tempo protetto gli altri dal risentimento, alfine giunge il momento di salvare la propria verità, anche se vuol dire ferire le persone che si amano. Quella donna semiparalizzata nel corpo e nella parola, ignorante, dura, che un tempo era capace di dare e togliere amore con un arbitrio incomprensibile, ora è un corpo ridotto dalla malattia a un’attenzione acuta. La maschera della forza esibita finalmente può cadere. Entrambe – figlia e madre – possono dirsi che non sono mai state “forti”, che si trattava solo di una necessaria dissimulazione.

Una bambina che non si sente amata, si accontenta degli avanzi, li prende da chiunque. Dopo essere stati sfollati a causa dei bombardamenti alleati, la “povera” gente nel dopoguerra è indurita come pietra a causa della privazione; conosce solo il bisogno e niente può sapere del desiderio. «Perchè non mi hai mai portato al mare, mamma?» si chiede Nina in una pausa del racconto. L’aveva visto nelle foto, letto nei romanzi. Quando Suor Teresa l’accompagna in autobus, scopre con sorpresa che è possibile arrivarci da Grosseto solo in venti minuti. Vi era vissuta a ridosso e nessuno gliel’aveva mai detto.

Agli incubi della bambina, seguono i sogni ricorrenti della preadolescente, che malgrado la fragilità, deve sostenere una pesante armatura da combattente: «Ero in partenza, dovevo fare le valigie e non trovavo quello che mi serviva. Cercavo tra le lenzuola, nei cassetti, tra i libri e mi mancava sempre qualcosa, ma non ricordo cosa». Qualcosa manca, tuttavia questo qualcosa non può venire da sua madre, da colei a cui una bambina si rivolge in virtù dell’identificazione speculare a partire dal corpo.

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E il padre? L’irriducibile pulsione narrativa di Nina sta al posto di un buco del paterno. La “legge” del Padre non è sempre modulata dall’amore e spesso la perversione sociale l’attraversa e la distorce. Nina da subito scopre l’esistenza di qualcosa di spigoloso e inesplicabile perfino dentro i propri genitori. Per una bambina è difficile mettere insieme l’ansimare estraniante e notturno di mamma e papà (al “casermone” solo un lenzuolo appeso la separava dal loro letto) con l’assenza del più piccolo gesto di tenerezza. «Non vi ho mai visto abbracciati, non ho mai notato un suo gesto affettuoso nei tuoi confronti, una carezza» ricorda Nina.

Se l’eredità familiare sembra assente, Nina se ne costruisce una propria. «Se solo tu – scrive Meconcelli – mi avessi raccontato qualcosa del tuo passato, ma tu eri di poche parole, stringata, semplice, spicciola, non avevi bisogno di chiarire». Se una madre non può offrire un significante in grado di dare identità alla propria figlia, per Nina esercitare la sottile “vendetta” della biografia è anche una forma di perdono. È accettare i limiti di una trasmissione di madre in figlia sull’essere donna.

Se ogni vita al femminile è un’eccezione singolarissima, il romanzo di Meconcelli è la faticosa individuazione di una donna senza la bussola paterna che ne orienti la rotta. Quel che non sai di me è la condensazione fatta romanzo di un’arresa verità: nessuno – nemmeno una madre o un padre – può sapere niente di una nascente soggettività. Nina22222040_193420384534539_7416463006802271749_n cerca una conoscenza che l’Altro non possiede. Si è costretti a fabbricarsela da soli: rubando dai libri, spiando Suor Teresa far l’amore con un giovane e appassionato amante, apprendendo da una vecchia vicina – Tosca – le virtù fitoterapiche delle erbe officinali.

L’autrice contrae il tempo e per farlo deve far regredire la sua scrittura a una posizione infantile. Lo stile, andando a pescare a una tale profondità, possiede una leggerezza disarmante, anche per chi vi si accosta attrezzato dei più elaborati strumenti critici. È qualcosa di simile allo stile diaristico delle adolescenti in cui confessione, preghiera e biografia si fondono in un grumo quasi liturgico, grazie al quale risalta la domanda su chi si vuole essere, su cosa si sta diventando malgrado tutto. Leggere Meconcelli è stare tra la memoria solitaria di una bambina e la sedimentazione conquistata di una donna, con la scrittura che possiede della prima il candore della semplicità, della seconda la pensosità ora rancorosa, ora addolcita dal ricordo.

Quel che non sai di me è la storia di un “saperci fare” con un “non sapere”, malgrado il rischio di sentire la tristezza cristallizzarsi in un’angoscia irreversibile. Non potendo una madre fornire alcuna traccia del senso, la sua cura si è risolta nel “foderare” sua figlia con la carta da giornale, sperando che per farmacocinesi, le parole – tutte – si condensassero fino a scendere e fare balsamo delle ferite di una bambina smarrita, lì dove nessuno può arrivare, nemmeno l’attenzione di una madre imperfetta. Ora che Nina è adulta, arriva il momento di restituirle tutte, quelle righe, per rivestire sua madre con una storia che le veda insieme abbracciate, sul limitare di una “mancanza” che è la materia stessa di ogni parola.

Vincenzo Carboni

Vincenzo Carboni nasce a Roma nel 1963. Dopo avere completato studi universitari in Servizio Sociale, approfondisce temi di psicanalisi, teatro e linguaggio video, campi da cui attinge per attuare progetti di educazione alla salute. Scrive di teatro, cinema e critica letteraria, proseguendo allo stesso tempo studi disordinati. Gli esami – si sa - non finiscono mai...

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