Il tempo muta la natura del mondo: tutto che viene avanti e quel che vediamo è nato da forme scomparse. Niente assomiglia a se stesso dove niente è stabile: c’è solo di stabile una violenza segreta che sovverte ogni cosa, perché dalla rovina di ieri altra vita si levi.
Lucrezio, De rerum Natura
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Tic-tac tic-tac. L’orologio incalza, ti segue ovunque: quando sei per strada e metti un piede dietro l’altro, quando sei sotto le coperte e spegni la luce convinto di essere solo. Non sai dov’è, forse sarebbe troppo facile trovarlo. Lui non ti molla un secondo: ti ascolta, scandisce i tuoi passi, misura il tuo sonno e la sua compagnia ti fa sentire solo, perché quando Lui è con te tu non ti accorgi di Lui, senti solo il ticchettio: tic-tac tic-tac. Chi è? È una tela che fa da sfondo alle cose delimitandone i contorni, poi, se ti soffermi sui singoli oggetti del quadro, scopri che non ci sono più e forse non sono mai esistiti, perché al loro posto c’è un qualcosa che non è niente. Un denso fluido di colore e brusio. Tic-tac tic-tac. Allunghi la mano per prendere l’oggetto, la immergi nel fluido: è caldo, brucia, fa male: tiri fuori la mano. È sporca di colore e trema, anzi, vibra come se dentro fossero imprigionati stormi di lancette, e continua a vibrare e prima che tu possa conoscere quel ritmo, contarlo possederlo divorarlo, sei già stato contato posseduto e divorato e non ti resta che guardare l’ombra delle lancette che scorre sulla tua pelle.
Tragico? Abbastanza, direi, soprattutto se pensiamo alla protagonista di questo film e alla sua storia. See-Hee è una giovane coreana come tante: umiltà imposta, modi educati, spasmodica gelosia old style, dai suoi simili ritenuta un’autentica gnocca, tanto che il chirurgo plastico inizialmente rifiuta di devastarle il muso. Ma lei è decisa a volersi fare del male e dopo un video di facce sanguinanti trapassate da uncini, vomita un po’, si asciuga, continua a fare sì con la testa, lentamente.
La nostra ragazza è un mix di stoicismo e masochismo, una gorgone invincibile alla quale non si può dire di no senza rimanere pietrificati. Si silicona gli zigomi, si taglia le labbra, si tira le orecchie non per apparire più bella: è tanto innamorata del tizio con cui sta da un anno che, per paura di non appagarlo come una volta, decide di ristrutturare da cima a fondo la tomba della sua anima. Nulla di che. È convinta che il suo Je-woo scopi con lei pensando a un’altra. Lui non è che sia molto vispo, ma comunque è fedele e ricambia sinceramente la sua compagna. Sennonché, la mattina seguente un litigio epico (pensavi a lei! – mi hai detto tu di pensare a lei!), Perseo la va a trovare per fare il mieloso e tutto il resto. L’appartamento è vuoto, non c’è più niente a parte il Tempo che filtra dalle finestre in raggi opachi, e sembra che rida e quel riso vuol dire che Se-hee se l’è squagliata: è partita per non ritornare più. Povera pazza.
In Time (2006) Kim-Ki Duk ci mostra Seoul nei suoi aspetti più squallidamente coreani, e funziona: l’arredamento ultraessenziale, i condomini cibernetici, i cellulari, le risse, i karaoke, il locale in cui la gente fa il pediluvio tirando calci a barchette colorate che decidono chi si deve accoppiare con chi, il ristorante dove i tavoli sono cubi con dentro tonnellate di calamari vivi. E, ciliegina sulla torta: orologi dappertutto.
È una società che vive correndo, che ha poco tempo per fermarsi e riprendere fiato e quando lo fa respira l’aria della propria solitudine; CO2 concentrata, che stordisce. La solitudine si traduce in tristezza e vela tutti gli occhi, mummifica le parole, intorbida i gesti più insulsi. È un ritratto dimenticato fuori dalla bottega in una notte di pioggia. Il pittore il giorno dopo se ne accorge e torna a riprenderlo. Disastro: storce il naso e la bocca e gli spunta una lacrima che non scende; le gocce hanno scollegato le singole parti e il volto è un abominevole intero. Allo stesso modo, i dialoghi e i rapporti fisici tra i personaggi del film danno la sensazione di essere rallentati da un peso. Da un denso fluido di colore e brusio. Le loro azioni, una per una, sono come intrappolate in tocchi di pennello che la pioggia ha mischiato e raggrumato rendendone incompatibile l’unione. E la gente ha sempre qualcosa da fare: agisce, ma non sa cosa fa; è depressa, annoiata, vive per inerzia e, anche se non lo vuole, sa sempre che ore sono. Eppure Lui non riesce a ingoiare tutto, perché ci sono cose che ad un certo punto smettono di avere un colore e di fare un rumore. Non è il Paradiso: è una forza viva che si può toccare senza allungare la mano verso il cielo: è l’isola delle statue. Non è necessario salire sopra le nuvole. Quelle statue sono ologrammi di creature appartenenti a un aldilà interiore. Si vanno a visitare quando ne sentiamo il bisogno – basta prendere un traghetto, staccarci dal continente e attraversare l’oceano – e ci attacchiamo alla loro superficie indifferente, ubriacandoci di quell’odore gelido: aspiriamo. Che cosa? Boh, forse nulla di preciso, ma sicuramente un assaggio di qualcosa di eternamente vivo.
La marea sommerge le statue, ma non le scalfisce. Sull’isola tutto resta integro: cambiano i murales e le persone nelle fotografie, non quello che c’è dietro. Il verso del traghetto è un suono assai più fievole del ticchettio dell’orologio: è una bolla di schiuma in un maelstörm grande tutto il mar Egeo. Ma è importante cercarlo e saperlo accalappiare prima che se ne vada e pagare il biglietto. Lasciarsi traghettare verso uno spazio mentale dove ricrearsi intimamente con se stessi; dove riscoprire ciò che siamo stati e ciò che siamo con una meraviglia sempre nuova. È per questo che Se-hee ritorna sull’isola. Per meravigliarsi: mentre lei si modifica, quei solidi spettrali, che sente estranei e insieme parte di sé, sono ogni volta uguali alla volta precedente.
La nostra storia e soprattutto i ricordi che di essa noi fotografiamo, sono il fissativo che ci consente di essere oggetti autonomi e distinti all’interno del quadro. Non a caso Je-woo – interpretato con grande finezza da Ha Jung-woo – è un fotografo (almeno ci prova). Se il tempo ci conta possiede e divora, noi non facciamo che assecondarlo: in lui contiamo possediamo e divoriamo noi stessi, e questo forse è un atto di libertà che ci è concesso. Se il nostro destino è decadere, decidere come decadere è la nostra identità che si scrolla di dosso le tinte e i rumori del mondo, conquista istanti di autonomia. Ma non è così semplice.
Se-hee, nell’intento di emanciparsi dal ticchettio, non usa il cervello e finisce per anticipare i tempi. Manomette l’orologio spostando le lancette in avanti: l’errore è fatale, non resta che autodistruggersi. Con il suicidio, tuttavia, soffrirebbe troppo poco, perciò sceglie un processo di catarsi psico-somatica che la porta prima a modificare artificialmente il corpo, poi a sdoppiare e infine a triturare la propria identità in frammenti sempre più infinitesimali. Il chirurgo alla fine le chiede, ‘vuoi che ti renda irriconoscibile?’ – Lei sorride.
Giorgio Bolognese
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