Qualche sera fa, all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, si è parlato di nuove migrazioni e di progetti di vita altrove.
L’idea era quella di proporre la testimonianza diretta di tre scrittori: il prisma scelto, dunque, quello della scrittura e della letteratura.
La premessa ovvia ma indispensabile è quella per cui si affrontava la tematica in modo ristretto, riferendosi a un tipo particolare di migrazione attuale. Nulla a che vedere con le migrazioni di chi arriva (se arriva) sui barconi, magari scappando da una guerra o comunque dalla miseria, né con l’emigrazione degli italiani di qualche decennio fa. Si parlava dell’emigrazione verso l’estero, e verso la Francia in particolare, di giovani italiani molto qualificati, in cerca di opportunità di studio o lavoro. Un’emigrazione “borghese”, per così dire, che non dà luogo a stigmatizzazione sociale e in cui non si avverte il bisogno di nascondere il proprio status di straniero.
I nostri tre. L’accostamento è di quelli improbabili, quindi, interessante.
Raffaele Alberto Ventura, aria da primo della classe, è autore per Minimum Fax di Teoria della classe disagiata (2017).
Tutti e tre sono brillanti, talentuosi e hanno esperienza del vivere all’estero.
Al netto di qualche piccola, perdonabilissima, banalità, il dibattito è interessante.
L’intervento di Missiroli è molto più aereo, sul piano della letteratura pura. Affronta il tema come narratore quasi indipendentemente da una reale esperienza di spostamento geografico.
Dice che non gli sembra un caso che tutti i suoi autori preferiti abbiano vissuto esperienze di migrazione: le partenze e i ritorni (o i non-ritorni) segnano, come uomo e come scrittore. E poi dice che l’esperienza erode la letteratura. In occasione di un soggiorno piuttosto prolungato a Parigi, dopo l’uscita del suo libro in cui aveva rappresentato precisamente una Parigi completamente letteraria e sublimata, la torre Eiffel gli è sembrata un enorme pezzo di ferro, Les Deux Magots un ammasso di tavolini dove il caffé è caro, e la tartare decisamente indigesta. È uno a cui piace parlare per paradossi, ma rende bene l’idea.
Si sfiora il tema dell’italianità che si radicalizza stando all’estero: è proprio vero che, da lontano, si diventa ancora più italiani. Ed è vero nel modo più bello possibile. Ci si sente più italiani di prima non per chiusura ma per apertura; non per ripiegamento ignorante di chi non conosce che il suo perimetro ma per ampiezza di vedute di chi è andato oltre le linee e può ammirare da un’altra prospettiva.
Ma il paradosso sta nel fatto che mentre ci si sente sempre più italiani, si iniziano ad assorbire modi di fare e mentalità del Paese in cui si vive, ragion per cui si è a casa sia di qua che di là, ma non si è mai del tutto a casa né di qua né di là. E quando dico “essere a casa” parlo di geografie, di affetti e di identità.
Chiaramente, mi sono abbastanza identificata con le sensazioni raccontate dagli autori presenti. Anch’io, come loro, mi sono ritrovata a vivere a Parigi per una scelta completamente libera, per nulla spinta o obbligata a fare la valigia. Non ho sentito che il mio Paese mi metteva alla porta. Ho, semplicemente, avuto voglia di andare a vedere come si sta da un’altra parte, come si vive, confrontarmi con un’altra cultura, fare un’esperienza di vita e provare in effetti a fare delle cose che forse, in Italia, non avrei potuto fare o non in quelle modalità (ma poi chi può dirlo). Ed è un’esperienza che consiglio a tutti, che arricchisce e che fa guardare con altri occhi al proprio Paese e alla propria identità.
È ancora Missiroli che offre lo spunto di riflessione più interessante della serata quando chiede a Ventura e Moltrasio se un eventuale ritorno in Italia sarebbe per loro una specie di contro-emigrazione e quindi, in ultima analisi, un’emigrazione. Le risposte sono opposte: per il primo no (perché, dice, pur vivendo qui, è un po’ come se fosse ancora sempre lì), per il secondo sì (perché lo strappo dell’essere qui è così forte che il ripartire sarebbe davvero un riemigrare verso casa).
Per me lo sarebbe, lo sarebbe e come! Dopo dodici anni passati qui tocca ammettere che l’Italia mi manca (forse sempre di più) ma che un ritorno è sempre più difficilmente immaginabile perché il riadattarmi al mio Paese sarebbe tutt’altro che scontato. Si sta in una terra di mezzo.
E dunque sì, hai ragione tu: quelli come noi vivono in purgatorio. E qualche volta il purgatorio può sembrare già l’inferno.
Manuela Corigliano
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