Le decisioni registiche, qui, sono quelle di Steven Spielberg, Katherine Graham è interpretata da Meryl Streep e il giornale è il Washington Post. Il film invece, inutile a dirlo, è The Post, e racconta di quel delicato momento in cui, nel 1971, l’editrice e il direttore del quotidiano Ben Bradlee (Tom Hanks) decisero di dare alle stampe il contenuto dei Pentagon Papers, i documenti che rivelavano l’implicazione degli ultimi cinque presidenti USA in una guerra che sapevano di non poter vincere. In barba alle minacce della Casa Bianca, la nazione doveva sapere che i suoi figli andavano a morire inutilmente nel Vietnam.
Questo è il plot, in poche parole, e questa è la Storia. Da un punto di vista narrativo, non c’è nulla che manchi nel film del regista settantaduenne: la suspense e la trepidazione dell’indagine, l’evoluzione di un personaggio al timone di una nave di soli uomini, il respiro di una materia storica con implicazioni collettive e altamente emozionali – checché si possa preferire che avesse dato più enfasi all’uno o all’altro aspetto, ma è questione di gusti. Due le nomination agli Oscar, per il film e l’attrice protagonista: non sono le sei ottenute ai Golden Globe, ma sono pur sempre motivo di orgoglio. Insomma, prestigiose, ma neanche troppo: le altre opere candidate per il premio principale hanno avuto almeno quattro nomination ciascuna. È anche insolito, del resto, che uno dei migliori film dell’anno – stando a sentire gli addetti ai lavori – si fermi a quota due nomination. Chi scrive ha qualche perplessità, e uscito dalla sala non può fare altro che continuare a rifletterci. Certo che The Post non avrebbe vinto, e infatti così è stato.
Ma quando è stata l’ultima volta che anche noi abbiamo provato a raccontare in un film il mondo del giornalismo televisivo o della carta stampata, che abbiamo provato a oltrepassare la soglia del biopic e le atmosfere tragiche degli ultimi giorni di Giancarlo Siani o di Ilaria Alpi? Dall’altro lato dell’oceano producono regolarmente film di satira e di denuncia, sotto forma di commedia o di resoconto storico, ambientati dentro e fuori le redazioni, davanti alle telecamere o ai microfoni di un notiziario del mattino; da questo punto di vista, The Post è al capo estremo di un filo che va fino a Tutti gli uomini del presidente, passando per Il caso Spotlight, Good Night, and Good Luck. e Cronisti d’assalto, dove Lo sciacallo – Nightcrawler è un’altra faccia della stessa medaglia di Diritto di cronaca.
Certamente non si può parlare, invece, di corrispondenze col nostro belpaese. Avete presente quella scena in cui, sul finale, una folla di lettori e comuni cittadini si accalca alle porte del tribunale per conoscere l’esito della sentenza? Sembra indubbio che una cosa del genere possa accadere anche da noi, ieri come oggi, appunto. Ciò che pare profondamente lontano dal nostro (mal)costume è l’ipotesi di una sensibilità così largamente diffusa verso il rischio di una repressione della libertà d’informazione.
Forse no, o forse tutto questo non è mai successo. Forse si sbaglia Reporters sans Frontiers quando dice che in Italia «i giornalisti si sentono sotto pressione da parte dei politici e sempre più spesso scelgono di autocensurarsi». Che ne sanno, loro. Però sarebbe bello se la macchina da presa, ogni tanto, si aggirasse tra i corridoi di una redazione e registrasse, un po’ per gioco, e un po’ sul serio, il sudore, le manie e le idiosincrasie di chi, per noi, confeziona ogni giorno le notizie con cui impariamo a guardare il mondo.
Andrea Vitale
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