Dopo la ristrutturazione degli anni ’80, le aziende abbandonano una metafora meccanicistica (sia operai che mezzi sono ingranaggi che obbediscono a procedure rigidamente standardizzate) per assumerne una dall’ambizione biologica (le imprese sono organismi viventi le cui parti sono inestricabilmente interconnesse e capaci di negoziare il proprio contributo per il miglioramento della qualità). L’apertura dei mercati seguente alla globalizzazione, ha imposto una sfida a livello planetario, tuttavia l’impressione è che la spinta al cambiamento organizzativo sia stata rallentata dall’incapacità degli stati nazionali di imitare le imprese competitive, come dimostrano la minaccia di introduzione di misure protezionistiche e la crisi dell’Unione Europea, attestata da spinte aggressive dentro l’illusoria sicurezza di confini etnici.
Ma da dove è partito uno dei punti di innovazione a cui oggi gli stati nazionali resistono? Bisogna andare indietro al 1914 e a un oscuro navigatore, la cui divulgazione è dovuta al volume Endurance: l’incredibile viaggio di Shackleton al Polo Sud che Alfred Lansing pubblicò nel 1959. A uno sguardo distratto appare come uno degli esploratori che nei primi del novecento fallirono più volte la conquista del Polo Sud. Perchè allora un nome tutto sommato minore dell’esplorazione antartica è stato assunto nel cielo dei maestri del fattore umano?
Nel suo terzo viaggio si propose di attraversare l’antartide coast-to-coast, ma fu proprio un fattore di crisi catastrofico a scatenare una serie di comportamenti per la coesione del gruppo assolutamente sorprendenti per l’epoca. Benchè i tempi che lo ispirarono ebbero un alone romantico, Shackleton va infatti considerato un grande innovatore in un campo (l’economia gestionale delle risorse umane) che non era ancora nato come disciplina. Senza saperlo, questo orgoglioso irlandese aveva anticipato di quarant’anni Taiichi Ohno e il Toyotismo, ma anche Joahan Cruijff e il Calcio Totale, ossia quel movimento di
L’ex baleniera chiamata Endurance, dopo essere salpata da Grytvyken (Georgia del Sud) il 5 dicembre 1914 con a bordo ventotto uomini, il 19 gennaio 1915 rimase incastrata nel pack, dopo aver provato ad infilarsi nei suoi varchi. Il 21 novembre fu completamente distrutta dalla pressione, evento che costrinse al trasferimento sulla banchisa, poi su vari lastroni alla deriva con tre scialuppe al seguito, sulle quali sperare di guadagnare il mare all’aprirsi del ghiaccio.
Fu solo la prima di molte altre mortali vicissitudini; a questa segurono l’approdo a un’isoletta fuori dalle rotte commerciali, l’attraversamento del Canale di Drake con una scialuppa in uno dei mari più tempestosi della terra e, per ultima, l’attraversamento dei ghiacciai mai esplorati della Georgia Australe per raggiungere una stazione baleniera da cui organizzare i soccorsi. Questi arrivarono a salvare tutti gli uomini dopo poco più di due anni dalla partenza dall’Inghilterra.
Rimando al volume di Lansing per una lettura più ragionata della storia, tuttavia mi preme sottolineare uno dei fattori di successo dell’impresa: la valorizzazione del fattore umano, a scapito di irrigidimento procedurale e severa gerarchizzazione. Si tratta di novità rivoluzionaria: se Shackleton non considerava il successo un altare su cui sacrificare anche una sola vita umana, in Europa la Grande Guerra si consumava in
Shackleton riuscì a preservare una convivenza “quasi” serena sul pack (dal 19 gennaio 1915 al 15 aprile del 1916), in un’estate che riduceva a poltiglia la superficie e in un inverno sotto penombra perenne. Altre spedizioni in condizioni di sopravvivenza non confrontabili, non riuscirono a arrestare inedia e psicosi che alla lunga decimarono l’equipaggio. Per prevenire disordine, insubordinazione e follia, Shackleton improntò il comando secondo un’insolita orizzontalità. Organizzò squadre in cui tutti partecipavano alla vita del gruppo: il marinaio aiutava l’ufficiale scientifico negli esperimenti, così come questo poteva contribuire alle corvée. Le mense erano comuni e i pasti gli stessi sia per gli ufficiali che per i marinai. Gli alloggi erano continuamente ruotati in modo da permettere a ciascuno di “assaggiare” le spigolosità degli altri, ma anche di solidarizzare. In Human Resource Management questo stile di gestione si condenserà molto tempo dopo nel motto “Tutti devono saper far tutto”.
L’autorità di Shackleton non soffriva se un marinaio lo appellava col nome di battesimo. Era anzi il primo ad animare il gruppo nelle feste che organizzava personalmente nella notte antartica, cosciente com’era di una vita sociale il più possibile simile a quella
Le crisi non si “risolvono” ma si vivono fino in fondo, rifuggendo la seduzione di un leader taumaturgico e rinforzando allo stesso tempo i legami del gruppo, senza agitare alibi di sorta. Scrivono Margot Morrell e Stephanie Capparell (rispettivamente un’analista finanziaria e una giornalista) nel 2002 in La via di Shackleton: «È stato definito “il più grande leader che Dio abbia mandato sulla terra”, eppure guidò al massimo 27 persone e non raggiunse quasi nessuna delle mete che si era prefissato». Fu maestro nel “gestire” le situazioni di crisi e, oggi che questa parola è ossessivamente ripetuta come un esorcismo, ci rivolgiamo a lui per capire com’è possibile apprendere le competenze per far fronte ai conflitti, per tenere dritta la barra sullo scopo, per minimizzare thanathos nell’allentamento dei legami.
Oggi più che mai le nostre vite sono interconnesse e condividono lo stesso guscio di noce, in una tempesta che rischia di far tornare a vista gli stessi fantasmi del secolo scorso. Si tratta per noi uomini del XXI secolo di continuare lì dove Shakleton ci mostrò la via. Il viaggio dentro il cuore coraggioso ma anche oscuro dell’uomo, non è ancora finito.
Vincenzo Carboni
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