Provò a sollevare la testa, ma pesava come un blocco di cemento. La nuca rimbalzò sul tavolo, il braccio disteso lungo il fianco. Non poteva muoversi. Era spossata, il cuore che le batteva all’impazzata e un ronzio costante nelle orecchie. Tossì, ancora una volta, e un conato di vomito le tolse il respiro.
– I figli del male [Antonio Lanzetta, La Corte, 2018, p. 8]
I figli del male è il nuovo romanzo dello Stephen King italiano. Così è stato definito Antonio Lanzetta dal Sunday Times. Un paragone di alto livello, un paragone che sposta le aspettative e gli orizzonti d’attesa del lettore nei confronti di questo libro.
Abbiamo imparato con il tempo che ogni raffronto fra autori in fase di affermazione e i colossi è sempre ingeneroso per entrambi. E non perché Lanzetta non sia uno scrittore davvero maturo e dotato di tutte le caratteristiche che possono farne un successo internazionale. Ma perché Antonio Lanzetta è Antonio Lanzetta, non King. E questo è il suo più grande punto di forza.
Ragioniamoci su. Con Il buio dentro, il libro che l’ha portato alla ribalta, Lanzetta ha trovato quella che indebitamente chiamiamo ‘la sua voce’. Che, detto in termini più specifici, significa una serie di tecniche e soluzioni narrative che lo vestono come un abito su misura.
C’è il gioco dei piani temporali, ovvero il raccontare una storia attraverso il passato e il presente, elementi che si ricongiungono continuamente nel corso dell’intreccio. Ci sono le metafore dure, che utilizzano spesso metalli, rocce o estremità appuntite come referenti. C’è la profondità psicologica dei personaggi, legata a doppio filo a una sofferenza del passato. Infine, c’è il gioco di contrapposizioni fra il mondo degli adulti e quello dei giovani, con i loro differenti punti di vista.
Tutto questo ha caratterizzato Il buio dentro, e tutto questo lo ritroviamo – in altre forme, in nuove misure e in un libro del tutto nuovo – ne I figli del male. Ed è in questo che noi riconosciamo che Lanzetta è proprio lui, e nessun altro. Fa esattamente ciò che ci aspetteremmo da lui, ci colpisce con quelle particolari emozioni che vogliamo dal seguito de Il buio dentro, e lo fa in maniera magistrale.
Il nuovo romanzo di Lanzetta comincia poco dopo la fine del precedente. Ritroviamo i protagonisti – Damiano e Flavio su tutti – che tentano di riprendere a vivere. Tentano di inserirsi in un mondo di luce che non gli appartiene – non a loro, che hanno il buio dentro – e a mettere finalmente una pietra su tutto ciò che è successo, sulla storia di Claudia, sul dolore che si sono portati dentro per una vita intera.
Ma c’è un nuovo caso. Un caso che Damiano non vorrebbe accettare, ma che lo riporta senza possibilità d’appello alla storia appena conclusa. E Flavio, suo malgrado, si ritrova invischiato in vicende torbide nell’ospedale psichiatrico dove lavora.
Dal momento che questi eventi si mostrano, sappiamo bene che saranno collegati. Sappiamo che in qualche modo le vicende si intrecceranno. Ma Lanzetta è bravo a depistarci, è bravo a tenerci in una sospensione di giudizio, mentre la storia avanza.
Abbiamo detto che I figli del male, come il romanzo precedente, si muove su diversi piani temporali. Oltre al presente di Damiano e Flavio, abbiamo due momenti, due linee temporali che hanno la capacità di completare le narrazioni del primo libro, e di rendersi quindi complementari. Vediamo infatti il 1955, quel ’55 in cui Mimì, il nonno di Flavio, è ancora un ragazzo. E vediamo poi gli anni ’90, velocemente, attraverso gli occhi di Flavio. Gli anni appena successivi alla tragedia di Claudia che sconvolge gli eventi de Il buio dentro.
Queste narrazioni ci forniscono elementi per ricostruire, pezzo dopo pezzo, quei personaggi frammentati che vediamo arrancare nelle loro vite. Personaggi che hanno ancora il buio, ed è paradossale che I figli del male presenti come indizio del nuovo caso una scritta: «Lui vede». Forse proprio attraverso quel buio in cui siamo immersi e dal quale non siamo ancora in grado di emergere.
Maurizio Vicedomini
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