La biografia non può essere vera conoscenza. «Chi diventa biografo – scrive Sigmund Freud a Arnold Zweig – si impegna alla menzogna, a tenere nascosto qualcosa, all’ipocrisia, all’abbellimento di tutto e perfino a celare la propria incomprensione, giacchè non è possibile possedere la verità biografica, e pur avendola, non si potrebbe adoperare. La verità non è praticabile, gli uomini non la meritano».
Gli fa eco Giorgio Manganelli in un’intervista apparsa in La penombra mentale (2002): «Lei mi ha fatto una domanda sulla mia biografia. Non le risponderò per il motivo fondamentale che non credo che la biografia esista». La biografia non è un genere letterario adoperabile, in quanto – essendo comunemente dominata dalla parte razionale – crede di districarsi tra citazioni, exempla, aneddoti, scampando così l’inconoscibile che emerge in quegli eventi sintomatici che non sono creduti “sceneggiabili”.
Manganelli utilizza la metafora del tappeto: «Noi abbiamo una struttura di fondo che assomiglia alla struttura del tappeto; diciamo che noi leggiamo costantemente la nostra vita dalla parte rovesciata del tappeto. La parte rovesciata porta tutti gli indizi del disegno, ma il disegno è irriconoscibile. L’importante è che quella che viene chiamata biografia si presenti come una serie di nodi che alludono ad un disegno che noi dobbiamo interpretare».
Sulla base della tripartizione dinamica della psiche in L’Io e l’Es e altri scritti del 1922, Freud scopre che l’IO tende a narrarsi secondo sequenze lineari, trovandosi altresì a mal partito con le “libere associazioni”. «Le associazioni vengono meno quando dovrebbero avvicinarsi al rimosso – scrive Freud – e il paziente si trova a vivere quella dimensione spiacevole di chi non ne sa nulla, nel momento in cui è proprio una resistenza quella che sta agendo in lui». Questa incapacità dell’IO a lasciarsi andare, a rivelare di sé una parte esiliata, porta il viennese ad accorgersi che anche una porzione dell’IO è indubbiamente inconscia.
L’inconscio quindi non si arresta al risveglio. L’IO dirà Jacques Lacan nel seminario L’etica della psicoanalisi (1959) – è inconscio in funzione: parla e pensa. L’inconscio non è l’istintuale sul quale deve intervenire l’IO regolatore, è piuttosto il luogo di una ragione eccentrica. «È come se il sogno – scrive Jacques Derrida in Il sogno di Benjamin (2003) – fosse più vigile della veglia, l’inconscio più pensante della coscienza, la letteratura e le arti più critiche della filosofia».
Slavoj Žižek in Leggere Lacan (2006), porta all’estremo il concetto: «La psicanalisi deve rendersi conto che la vecchia situazione nella quale la società è portatrice di divieti e l’inconscio di pulsioni sregolate, è oggigiorno invertita: è la società ad essere edonista e sregolata, mentre è l’inconscio che regola». Insomma, ciò che Freud inventa è l’idea di una ragione diversa da quella della coscienza, una ragione “incosciente” e misteriosamente ordinatoria, che pensa e parla.
L’inconscio quindi è un processo attivo che spinge a srotolare un tappeto dalla parte “sbagliata”. Ciò che abbiamo di fronte è il retro dell’opera così come il sintomo l’ha annodata, proprio come Las Meninas ci mostra il retro della tela a cui sta lavorando Diego Velazquez. La rappresentazione di un’esistenza come serie è quindi un falso, perchè presuppone una cronologia di eventi, mentre il nodo è istantaneo, sincronico, astorico, accecante e ci viene addosso. «Noi guardiamo il rovescio del tappeto – continua Manganelli – e lo guardiamo in una condizione di istante. Anche se poi noi eseguiamo un percorso per annodare i nodi, in realtà i nodi ci vengono incontro tutti insieme. Ed è questo… questo affollarsi e incontrarsi dei nodi, che fa la struttura del tappeto».
Per Manganelli il grafismo dell’esistenza è quella materia significante che ci induce ad interpretare la nostra vita, ma che – pur “riguardandoci” – guarda da un altra parte. «Esiste un grafismo che sottende l’esistenza. […]. Cioè, mentre noi guardiamo la nostra vita, la nostra vita non ci guarda, guarda altrove, ed è questo altrove che è stremante». Questo perdersi, questo seminare la propria strada di ostacoli lasciando fare all’inconscio come la parte più autentica, vuol dire lasciarsi intrecciare dai propri significanti, da cui solo può emergere un senso, sebbene oscuro, distratto e sintomatico.
Tommaso Landolfi in Rien va (1963) compone un’autobiografia che risulta al limite della lettura per quanto composta di trappole, deliberate involuzioni del periodare, cul de sac verbali («Ma che riposo – afferma – scrivere tanto male»), di ferite inferte al proprio corpo di parola («Perfino in queste pagine mi incalzo»). L’IO in quanto Autore viene continuamente diffamato («Mi calunnio e calunnio, ancora»), fino a farsi fuori del tutto («Avevo cominciato a scrivere IO e mi sono vergognato»).
Landolfi fa qui eco allo Stendhal di Vita di Henry Brulard (1890): «Dove sarà mai il lettore che, dopo quattro o cinque volumi di IO e di ME, non desidererà che mi buttino addosso non più un bicchiere di acqua sporca ma una bottiglia di inchiostro?». Manganelli parla di errore della scrittura («Il testo deve essere sbagliato. Ci deve essere dell’ombra»). Il lavoro dell’inconscio consiste nel rendere possibile il ritorno della verità dal suo esilio, poiché ogni sua formazione è un voler dire che si manifesta all’insaputa dell’IO, anche se è una verità traumatica a liberare la propria voce.
Landolfi si domanda: scrivere è dar voce a sé stessi? Scontato il fatto che non si dà un “sé stesso”, ciascuno «dovrà se mai fabbricarselo con dispendio di energia e per di più col palese senso della vanità, e artificialità di una simile fatica». Se l’IO non fa che produrre narrazioni ortopedizzanti (quindi false), si tratta allora di ingannarlo, trovando proprio nella sua goffagine la verità esiliata.
Se l’uomo non merità la verità, deve tuttavia meritarsi il “lavoro sulla verità”. Non parliamo di un dato cristallizzato fatto feticcio ma – scrive Elvio Fachinelli in Su Freud (2012) – del «movimento stesso di avvicinamento a un uomo, in cui si definiscono man mano tutti i suoi contraddittori rapporti con ciò che lo circonda e lo abitò».
Un vero biografo, malgrado la contraddizione in termini che lo affligge, dovrà lasciarsi fabbricare con fatica da ciò che lui stesso nega alla propria vita e che tuttavia, negato, continuerà a insistere per sempre.
Vincenzo Carboni
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