Di questi tempi – in libreria – è facile imbattersi in romanzi scritti da autori stranieri. Nomi impronunciabili o quanto meno esotici, che alludono a storie di mondi lontani, talvolta affascinanti o misteriosi, talaltra spaventosi o temuti senza motivo. D’altronde, è l’epoca del commercio sfrenato, dell’assenza di frontiere, del circolo globale delle idee.
E così, ci capita di sfogliare con la stessa comodità un libro scritto da un amico e quello di un uomo che non incontreremo mai perché vive dall’altra parte del mondo. Ma è davvero la stessa cosa? È uguale leggere nella propria lingua o in una lingua straniera? Sono entrambe in grado di far risuonare certe corde che abitano dentro di noi? Ma è poi così importante?
Sì e no, verrebbe da dire. Perché la vicinanza elettiva ha poco a che spartire con quella geografica e le affinità tematiche ancora meno. Quante volte – infatti – ci siamo stupiti nell’imbatterci in storie che ci riportavano al cuore dei nostri dubbi più segreti o nell’intimità delle nostre stanze d’infanzia, anche se provenivano da mondi lontani? Eppure, allo stesso tempo, abbiamo anche percepito una nota stonata, una minuscola crepa, che ci ha fatto sentire di colpo distanti, spaesati, impartecipi. Perché deve pur esserci qualcosa, nella consuetudine dei luoghi nativi, che – come direbbe Pavese nella sua propensione localistica – ci permette di sentirci finalmente aggrappati alla sostanza delle cose, compresi, restituiti a noi stessi.
Ne La langa, Pavese s’interroga con grande acutezza proprio su questo argomento: “Resta da vedere” scrive infatti l’autore, “se, nei due campi, l’attivo e il creativo, devi limitarti a scavare e comprendere sempre più a fondo la realtà che ti è già data o se sia proficuo affrontare continuamente cose, figure, situazioni, decisioni a te estranee, amorfe e dall’urto e dallo sforzo trarre un continuo potenziamento e incremento delle tue capacità”.
E ancora, in una famosa lettera a Fernanda Pivano, confessa: “Ora io non ho ricordi di questi luoghi, di questa natura, di questa realtà: per me è un mondo gratuito, vuoto, oggettivo, come persona veduta per la prima volta. È evidente che non ho nulla da dire su di esso”.
“Un paese vuol dire non essere soli” scrive ne La luna e i falò, “sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo”. E ancora: “Stessi rumori, stesso vino, stesse facce di una volta”. Ma allo stesso tempo, ammette anche: “Un paese ci vuole non fosse altro che per il gusto di andarsene via”. Ecco, questa mi pare l’essenza del discorso in tutta la sua misteriosa poesia.
Nell’intera opera di Pavese si percepisce l’intento di sottolineare l’importanza e la complessità che la territorialità assume nei suoi scritti. Luoghi veri, concreti, mai divini o divinizzati, spazi – cioè – nei quali si è forgiata l’esperienza di chi li ha abitati, nei quali ha preso coscienza e consapevolezza di sé la personalità di chi li ha calpestati. Perché gli elementi dello spazio fisico in cui Pavese fa svolgere le sue narrazioni non sono mai generici riferimenti geografici, ma si caricano di valenze simboliche, riempiendo il racconto di sentimenti e ricordi. È un po’ come dire che i luoghi che conosciamo – che ci hanno visto crescere, vivere e soffrire intorno a loro – in qualche modo vengono modificati dalla nostra azione e ci modificano a loro volta.
Nel suo diario, Pavese scrive ancora: “I luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria a ciascuno consacrati nelle stesso modo; in essi accaddero cose che li hanno fatti unici”. È possibile, dunque, parafrasando l’autore piemontese, “uscire dai nostri quattro tetti?” È possibile, intendo, uscire dal paese dell’infanzia quando è stato trasformato in un serbatoio di ricordi?
Forse sì, perché in letteratura le parole non dovrebbero parlare solo di se stesse, ma anche e soprattutto del mondo, perché il mondo esiste ed è per capirlo che leggiamo i libri. Ma cos’è il mondo, fuori dalla nostra visuale? È davvero un luogo che possiamo conoscere, forgiare, nel quale possiamo inserirci ed avere un ruolo? Non è l’ennesimo altrove verso il quale ripartire e che ci vedrà ugualmente impartecipi? Un altrove sognato, certo, ma anche opaco. Un altrove che non comunica nulla all’uomo che lo interroga.
In questo discorso, è proprio la lingua nella quale i romanzi sono prima pensati e poi scritti che appare centrale. Perché le parole possono sì essere tradotte con maestria, ma difficilmente riescono a essere fatte vibrare con la stessa intensità. Diventano, cioè, parole generiche, qualsiasi, termini immersi nella foschia. Come dice Eco: “Traduciamo più di tutti”. Non per forza un difetto, ma “un difetto” prosegue Eco, “quando dipende da una nostra indubbia esterofilia di fondo. Mentre è una virtù quando dipende da una altrettanto indubbia nostra attenzione alle culture straniere”.
Ecco, dunque, l’atteggiamento sobrio ed elegante – e senz’altro giusto – di Eco, che ci invita a non spostare mai lo sguardo da tutto ciò che ci circonda, mantenendo sempre viva la curiosità per ciò che è diverso, ma che ci sollecita anche a rimanere concentrati su ciò che abbiamo accanto, a non banalizzarlo perché ritenuto senza più misteri, a non sottovalutarlo perché troppo familiare. Infatti, proprio grazie all’intimità che abbiamo con l’accanto, questo altro luogo-non luogo antitetico all’altrove diventa la nostra porta principale verso la conoscenza.
Come dice Moresco ne L’adorazione e la lotta, la lingua e la letteratura italiane sono sempre state eccessivamente denigrate dai nostri stessi critici. “Come si potrebbe definire questo atteggiamento delegittimante?” si chiede Moresco. “Mi pare che le manifestazioni patologiche che più somigliano a tutto questo siano le malattie autoimmuni, cioè quei processi caratterizzati dalla formazione, da parte di un organismo, di anticorpi agenti contro i costituenti dell’organismo stesso”.
Ecco, allora, la bellezza di riscoprire i nostri autori, la nostra lingua. Il nostro lirismo popolare. Un linguaggio evocativo e poetico, ma al tempo stesso concreto, localistico, a noi così familiare. Una lingua con una forte propensione a mischiare il dialetto – o comunque a utilizzare termini popolari – con il lessico letterario. Perché la lingua – dice Pavese – deve avere dentro di sé il sangue della provincia, il suo potere evocativo.
Come viene detto dai critici, il registro pavesiano è un volgare illustre. Pieno di parole, diminutivi e modi di dire non completamente traducibili (quali, per esempio, cavagno, stradone, portare in pastura, stazionuccia, biroccio, farle buone, pelliccetta, ficcò, ciuffetti di menta, bellina), ma pregni di significato per chi può comprenderli. Perché privarsi di tutta questa bellezza così familiare, così allusiva, così comunitaria e quindi condivisibile, per perdersi dietro ad anonimi e sterminati campi di grano, ai pick-up, ai dunkin’ donuts, ai living, al burro di arachidi, alle colt, ai cocktail Manhattan, che probabilmente non sono in grado di suggerirci niente, perché non li abbiamo mai vissuti ma soltanto sbirciati al cinema?
Come non pensare, invece, a Il quartiere di Pratolini? A quelle case e a quelle strade “dove fu bella giovinezza col suo miele di fanciulle e di fame?” Quante pagine ricche di lirismo e intimismo populistici, corali. Quello di Pratolini è sì un gergo popolare, ma di una specie colta, tutt’altro che semplicistica. Il quartiere del suo noto romanzo è infatti il luogo di una comunità organica, “con i suoi orti e la sua strada ferrata, panni alle finestre, botteghe affumicate, caffè novecento”. Non vi pare di riconoscerlo? Di vederlo davvero? Di comprenderlo, davvero? Quasi di ricordarlo? Perché “su quelle strade e piazze scorreva la nostra vita” e scorre probabilmente anche nella realtà. Il linguaggio di Pratolini è un linguaggio di verità, che si fonda e s’accresce di significato nelle radici personali di ognuno di noi, radici attraverso le quali da sempre abbiamo conosciuto e conosciamo la realtà.
Lo stesso discorso vale per Parise, soprattutto per gli splendidi Il ragazzo morto e le comete e Sillabari. Testi – in particolare quest’ultimo – nei quali l’italiano mostra il suo aspetto migliore, la sua musicalità ma anche la sua precisione, il suo potere immaginifico e la sua capacità descrittiva, la sua ricchezza etimologica, i suoi misteri. È impossibile non commuoversi di fronte a queste storie brevi, strazianti ma anche piene di tenerezze, raccontate in una lingua asciutta ma poetica, senza un’unica sbavatura. Davanti a queste storie che sono le nostre storie, dei nostri genitori, nonni, dei nostri conoscenti, delle nostre terre. Ma nostre non certo nel senso che non si debbano condividere o che abbiamo maggior valore di quelle degli altri. Nostre perché le conosciamo, le comprendiamo. O ancor di più, nostre perché ci permettono – riconoscendole – di conoscere qualcosa al di là del loro intreccio. Qualcosa di universale, intendo dire, dietro al loro localismo.
“Nel viaggio ignoto tra gente ignota” scrive Magris ne L’infinito viaggiare, “si impara a essere nessuno. Si capisce di essere nessuno. Qui io so chi sono. Non per nulla, il viaggio è anzitutto un ritorno ed insegna ad abitare più poeticamente la propria casa”.
Ne La luna e i falò, Pavese esprime alla perfezione questo senso di circolarità della conoscenza: “Potevi spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto?”
“Noi siamo scemi” fa dire a Pieretto ne Il diavolo sulle colline, “cerchiamo giorno e notte il segreto della campagna, e il segreto l’abbiamo qui dentro, l’abbiamo qui dentro”.
Dunque, non perdiamo mai l’interesse per il mondo, ma proviamo anche a rileggere nella nostra lingua.
Anna Pietroboni
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