Il 26 maggio, nella cornice di Napoli Città Libro, verrà presentato per la prima volta Amapolas. Racconti dal mondo ispanico (Alessandro Polidoro Editore), antologia che raccoglie venti autori intorno al tema dell’amore nelle sue possibili declinazioni.
Su Grado Zero, in esclusiva, il racconto di Alonso Sánchez Baute.
(Traduzione di Maria Concetta Marzullo)
L’autobus si fermò senza preavviso in mezzo alla strada. Paula si svegliò per il trambusto, i mormorii, le frasi sconnesse e una voce in fondo che non smetteva di ripetere di tornare ai loro posti, che era meglio mantenere la calma, che queste cose succedono continuamente. Paula riuscì a sollevarsi solo un po’ dal suo sedile. Guardò con attenzione verso la parte anteriore e quella posteriore del veicolo. Su entrambi i lati, la lunga fila di automobili continuava all’infinito. Chiese alla persona accanto a lei Che succede? Niente di cui preoccuparsi, ascoltò con calma la risposta. Pensando a un grave incidente, per paura Paula si tappò la bocca con la mano sinistra. Erano svariati anni che non tornava in Colombia, ancor di più nel suo paesino d’origine, perso nel nulla a mille chilometri dalla realtà. Lo aveva abbandonato molto giovane, non aveva neanche quindici anni, inseguendo le luci della capitale della Repubblica e l’eterno anonimato. Andò via senza salutare, come un fuggitivo del lontano Ovest. Consapevole – come Čechov – che l’interesse nel visitare nuove città non è conoscerle, bensì fuggire da altre. A Bogotá, trovò lavoro presso un parrucchiere “chic”, come era solita definire tutto quello che le piaceva. Descrisse anche se stessa come una donna très chic la prima volta che andò a Parigi. Visse lì per un paio d’anni, finché non si stancò dell’arroganza francese. Un giorno qualunque, quasi senza rendersene conto si ritrovò a Milano. In tutte le città in cui abitava il suo lavoro era lo stesso: non c’era nessuno che la superasse in destrezza nell’uso di spazzola, forbici e asciugacapelli. Ma il tempo passa in fretta e un Natale – trascorso con poco entusiasmo – capì che il suo cuore era pieno di nostalgia, per usare un eufemismo. Come tutte le decisioni della sua vita, anche questa la prese in un batter d’occhio. Il giorno dopo si ritrovò di nuovo a Bogotá. Due giorni più tardi, dopo rimpatriate con amici, festeggiamenti con annesse bevute tutto d’un fiato, prese un aereo per la capitale della sua regione. Chiese al taxista di portarla fino alla Central de Transporte. Era nuova e non la conosceva – a lei, che in tutto trovava la bellezza – sembrò molto carina, come gli autobus colorati che ogni ora partivano per la profondità del tropico, fermandosi per un breve scalo in quel paesino che da piccola aveva giurato di cancellare dalla sua memoria. Si addormentò immaginando le reazioni, pensando a come avrebbe potuto trattenere le lacrime nell’incontrare gli occhi di sua madre. Preferiva non preoccuparsi di suo padre. Era morto?, si domandò un paio di volte, combattuta nel pensare se magari così sarebbe stato meglio. Più di una volta, gli occhi le si riempirono di lacrime mentre ricordava la casa dove era nata, l’odore dei manghi nel patio della sua infanzia, le ninna nanne ascoltate dalle labbra di sua nonna, la tenerezza di una mamma che imparò – insieme a lei – a leggere, a contare, a scrivere. Così si addormentò, prima che la svegliasse una fitta mortale. Accadde quando sollevò un po’ il suo corpo dal sedile per vedere la lunga fila di veicoli ai lati dell’autobus su cui viaggiava. Allora chiese alla persona accanto a lei Che succede? E ascoltò con calma quella frase Niente di cui preoccuparsi. In quell’istante, un paio di uomini sudaticci in divisa salirono sull’autobus. Sono dell’esercito, pensò Paula nel vederli in uniforme. Immediatamente obbligarono tutti i passeggeri a scendere, chiedendo loro i documenti e requisendo tutto quello che trasportavano. Uno di loro, quello dal tono assordante e dallo sguardo severo, si fermò davanti a lei scrutandola da capo a piedi, come se la stesse esaminando. A questo punto è necessario precisare che Paula è una donna particolarmente bella, dalla figura imponente (senza tacchi, supera il metro e ottanta di statura), ossidiana come la notte più scura, dai lunghi capelli ondulati, dagli occhi ambrati e profondi e movenze tali da far girare la testa a tutti quando cammina. Sicuramente questa va bene, disse il militare e poi, con tono feroce, ordinò: Lei viene con me. È pazzo?, rispose lei, boriosa, nonostante avesse poco più di trent’anni. Forse erano pazzi tutti i militari perché la portarono via, lei e altri ancora prelevati dalle altre automobili. Tutti – militari e civili – erano circa una trentina di persone, che rapidamente si persero di vista addentrandosi nella selva. Salirono sulla montagna, camminarono per giorni, patirono la fame. Un paio di ruscelli salvarono tutti dalla sete. Solo il quinto giorno, Paula assaggiò delle proteine: un uovo fritto che diedero a ognuno di loro in un accampamento improvvisato. Già allora, non era più il cibo ciò per cui smaniava la nostra amica: chiedeva solo che esistesse la possibilità di svitarsi le gambe per lasciarle da qualche parte tese e doloranti com’erano, tumefatte, livide, dopo aver camminato per tanti giorni a piedi nudi, sanguinanti, perché dopo la prima ora di cammino aveva già mandato al diavolo i tacchi a spillo très chic che una volta aveva comprato sugli Champs-Èlysées e ora la facevano sembrare poliomielitica. Già allora, sapeva che i suoi sequestratori non appartenevano all’esercito, ma si trattava di uno dei più temibili commando fascisti che martoriava il paese con la scusa di sedare la guerriglia. Fu proprio l’uomo che si innamorò di lei, vedendola seduta nel pullman, a raccontarglielo, colui che chiamavano Comandante, lo stesso che ogni notte la corteggiava con frasi sdolcinate, quello che assicurava che, se avesse voluto, avrebbe potuto fare di lei ciò che gli pareva, ma che la desiderava come sua moglie, come sua compagna. Voleva, le disse, che fosse la madre dei suoi figli. Da lì tanta galanteria, tanta pacchianeria, tanti trattamenti di favore, tanti sorrisi amichevoli, tanti sussurri poetici. Lei, parca fino alla fine, considerandosi come una donna desiderata e rispettata, finì per cedere di fronte all’insistenza. Successe il nono giorno. Il suo corpo dalla linea esotica si lasciò dominare, sfinito da tanto camminare. Gli disse Sì all’orecchio e lo baciò sulla bocca con tanta sregolatezza che sembrava volergli succhiare con la lingua gli organi, dallo stomaco fino al colon. Era fame, sete, paura, dolore, vendetta, sesso, sapore, passione, piacere, sofferenza, angoscia, sconforto. Il Comandante la abbracciò con tenerezza. Pettinò i suoi capelli con delicatezza, come lo avrebbe fatto un uomo realmente innamorato. Leccò il suo viso lentamente, le sue gote, le sue ciglia, le sue orecchie. Infilò la lingua nelle sue orecchie mentre le giurava una, tante cose. Infine, le fece promesse da marinaio. Poi baciò il suo corpo lentamente, i suoi seni turgidi, il suo addome piatto, i suoi spasmodici fianchi e, proseguendo con la sua lingua verso il basso, scese fino alle sue gambe. Che piedi grandi che hai, commentò ironicamente mentre infilava ogni dito nella sua bocca. Non ti crederai il lupo cattivo, si sentì prenderlo in giro. Ma lui non la ascoltò: era sommerso nell’ebbrezza più pura di amore e gloria. Accadde quando lui risalì con la sua mano destra, infilandola sotto la gonna. Porco cane, cos’è questa merda! Impallidì il Comandante. Allora lei gli fece vedere che non era del tutto donna.
Questo successe tre anni addietro, prima di convertirsi nel suo amore eterno. Da un paio di settimane, quando il Comandante e i suoi uomini hanno deposto le armi, protetti dalle negoziazioni di pace del governo, la bella Paula vaga in preda al dolore senza sapere dove diavolo canterà i motivi anni Ottanta con cui rallegra tutti i venerdì sera dei “suoi” soldati.
Alonso Sánchez Baute
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