Racconto: Jamm a’ mare – Michelle Grillo
Giggino afferrò lo smartphone sopra il comodino e guardò di nuovo l’orario: erano le due e mezza. «Chillu strunz mi ha detto alle due, ha fatto tardi un’altra volta», bofonchiò spiando ancora una volta tra le fessure della persiana abbassata. Infilò la canotta due taglie più grande e si guardò allo specchio sollevando di poco il sopracciglio, compiaciuto della nuova rasatura che gli aveva fatto Aniello il barbiere, per una volta gli aveva azzeccato il taglio. Il tempo di allungarsi sul divano letto, tra le bambole di sua sorella Lucia che sentì il rombo della moto di Enzuccio. Giggino scattò in piedi e prese lo zaino con l’asciugamano del mare ancora lì dentro dal giorno prima. In tre passi afferrò la maniglia della porta d’ingresso, ma sua madre fu più rapida e gli arrivò alle spalle come un falco, con il grembiule liso a fiorellini e i guanti di gomma alle mani ancora pieni di schiuma.
«Aro’ vai?».
«A mare ma’, aro’ aggia ji?!».
«Invece e p’nzà e strunzat, vai un poco a studiare che se ti bocciano un’altra volta, ti mando a lavorare insieme a zio Gabriele all’officina».
Giggino pensò al grasso, all’odore acre e ai calendari con le femmine nude e non gli sembrò una vera e propria punizione lavorare all’officina con zio Gabriele, anzi, valutò che l’ipotesi di starsene tutto il giorno a riparare macchine fosse una prospettiva migliore che frantumarsi i coglioni cinque ore “assettat”.
«Sine ma’, vabbuò, fai una cosa vai a lavare i piatti, mo devo scendere», e si precipitò giù per le cinque rampe di scale scendendo i gradini e due a due. Attraversò il portone spalancato:
«L’hanno sfondato di nuovo, so stat’ chilli scustumat dei figli del pisciaiuolo». Giggino si girò verso la vecchia seduta al fresco. «Loro so’ stat», continuò. Fece finta di non ascoltarla, i figli del pisciaiuolo erano amici suoi. Un venticello si sollevò tra i porticati dei palazzoni, la vecchia prese la sedia e se ne andò su per le scale. Giggino non fece nemmeno la mossa di volerla aiutare, tirò dritto e lanciò un’occhiata a sua sorella che stava seduta sul muretto insieme alla figlia della signora del secondo piano. Una puzza di merda, mista a pisciata si alzò all’improvviso. Giggino si portò una mano sul naso e poi ordinò a sua sorella: «Sali Lucia che ti pigli nu’ colera», stava per avvicinarsi per darle… «Fa ambress»”, gridò Enzuccio da sopra la moto.
«’A faccia è tosta!».
«Non l’ho trovato subito».
«E mo?».
«Sta’ sciolto, poi sono andato addò Tocchettino», fece mostrandogli orgoglioso il pezzo di hashish.
«Che si scem, nascondi!» Giggino si guardò intorno, «che se ci vede chill’ omm’ ʼe merd’ m’accir».
Enzuccio rimise subito il fumo in tasca. «Io o vuless’ sapè com’è che tua mamma s’è pigliat’ a un accussì». Giggino non rispose, pensò a sua madre chiusa notte e giorno nella lavanderia dietro casa, dove schiattava in corpo subito dopo che suo padre se n’era scappato in Brasile. «Jammucenn’!» disse. Enzuccio allora diede un colpo forte al pedale di accensione e lasciarono il piazzale. Costeggiarono i palazzoni delle cooperative Sant’Anna e raggiunsero la statale in direzione del mare. Giggino guardava ai lati della strada le terre con le coltivazioni di angurie: i “marrocchini” erano calati a riempire le casse a quell’ora del giorno, con quel caldo di pazzi che manco sulla moto riuscivano a stare freschi. Enzuccio suonò al gruppo di donne che stava salendo su un pulmino mezzo bianco e mezzo arrugginito parcheggiato vicino alle coltivazioni, poi deviò verso la stradina a destra e si fermò: «Scinn».
«Che dobbiamo fare qua?».
«Tu scinn, vieni appresso a me».
«Giggino si tolse il casco, scese dalla moto e seguì Enzuccio che avanzava verso l’ingresso di una serra. Entrarono. In lontananza degli uomini stavano lavorando. Enzuccio si acquattò dietro un cespuglio, fece segno a Giggino di fare lo stesso e cominciò a cercare nel terreno delle pietre.
«Che dobbiamo fare?».
«Dobbiamo dare una lezione a ‘sti schifosi. Hai letto n’gopp’ a Facebook? Cinque di loro hanno violentato a una e prima di chiavarsela hanno struppiat’ ʼo marit’. Tiè, piglia».
«Enzù ma che c’ne fott, jamm a mare».
«No Giggì, devono capire chi comanda, se ne devono andare a casa loro e fin quando stanno qua devono abbuscare notte e juorn».
Giggino guardò il compagno, aveva le ascelle bagnate e pure il fiato corto, sotto quella serra non si respirava.
«Dammene una, muoviti!», disse indicando in mucchietto di pietre accatastate.
Enzuccio ne scelse una bella grossa: «Pensav’ ca’ t’ stiv’ cacann sott!» disse beffardo stringendo il sasso in una mano.
«Al mio tre le lanciamo, sei pronto?» Giggino mosse il capo in segno di assenso, lo sguardo dritto verso il bersaglio.
«Un’, roje… e tre». Enzuccio si allungò e tirò. Un attimo dopo un uomo diede un grido di dolore. Giggino non si mosse, restò fermo con il braccio a mezz’aria e la pietra in mano.
«Che fai Giggì, muoviti, curr’». Allora lasciò cadere la pietra a terra e cominciò a correre a perdifiato dietro Enzuccio. Infilarono i caschi e saltarono veloci sul mezzo, Enzuccio spinse sul pedale, rapido, e accelerò. La moto girò su se stessa lasciando una lungo cerchio sulla ghiaia, poi scapparono via lungo lo stradone del mare.
«Ma si’ strunz’ proprio?».
«Perché?».
«Che ti è venuto? Mi hai fatto tirate solo a me!».
Giggino voleva rispondergli che il braccio non si era voluto muovere, ma gli sembrò una risposta cretina e allora non disse nulla. Si tastò solo la pancia che gli faceva male. Imboccarono una stradina sterrata e parcheggiarono di fronte alla spiaggia, scesero dalla moto e imbracciarono i caschi. Enzuccio tirò fuori dal pacchetto di Marlboro una canna già bella e pronta. L’accese e diede un tiro profondissimo, poi la passò a Giggino: «Tiè, fuma». Giggino obbedì. Il sole era alto ed Enzuccio si portò una mano sulla fronte per proteggersi gli occhi, le labbra si aprirono in un ghigno. «Guarda là fuori chi ci sta…» fece sollevando di poco il mento. Giggino abbassò la canna e strizzò gli occhi, Carmelina era appoggiata al cofano della sua Mercedes bianca modello antichissimo. «È Carmelina ʼo ricchione, fa pure i turni di mattina mo?».
Sguardo dritto, Enzuccio si incamminò; Giggino, casco alla mano, dietro di lui.
«Come stai Carmelina?» disse Enzuccio quasi cantando. Carmelina portò una ciocca della parrucca nero corvino dietro all’orecchio e si girò dall’altra parte, ma Enzuccio in pochi secondi le fu addosso.
«Ti ho chiesto come stai, che fai non rispondi? Sei diventata scostumata mo?».
«Sto bene, sto bene», fece Carmelina indietreggiando, tutta sconcia dentro al vestitino preso da La signora in rosso. Enzuccio buttò un occhio verso la pineta. «Ti va di farti una camminata insieme a noi?».
«Lasciatemi stare».
«E che ti pensi, che non ti possiamo pagare?».
«No, no, e che ragazzi, con voi non ci vengo».
«Ah, no? E perché, non ti piaccio Carmelina, non ti piace nemmeno Giggino? Vir cumm’è bell». Giggino deglutì e poi strinse il braccio dell’amico: «Lascia stare Enzù».
«Ma che lascia stare», disse scuotendosi il braccio da dosso, «mo ʼsto ricchion’ viene appresso a noi», e tirò fuori un coltello dalla tasca di dietro dei jeans. Carmelina scattò all’indietro, quasi si stese sul cofano della Mercedes. «Forza, vieni con noi», le ordinò.
«Sì vengo, ma non fatemi male». I tre si incamminarono verso la pineta. «Che volete farmi», piagnucolò Carmelina.
«Niente, solo cose belle, ti piace pigliarlo nel culo?» Carmelina non rispose, continuava a piangere. «Rispondimi!» urlò Enzuccio, poi di nuovo calmo domandò ancora: «Ti piace pigliarlo in culo?».
«Sì, sì, ma mo lasciatemi stare».
Raggiunsero una duna nascosta, la luce filtrava debole tra i grossi alberi. Enzuccio prese Carmelina, che era più alta di lui, la tirò per il braccio magrissimo e la buttò giù, tra gli aghi dei pini. Carmelina si coprì il viso con le mani tozze.
Enzuccio si girò: «Giggì, è tutto tuo, chiavati a questo ricchione e poi fottigli i soldi» e si accese una sigaretta. Giggino restò fermo e non si mosse, con una mano elemosinò la sigaretta, con l’altra teneva stretto il casco. Enzucciò gliela passò e allora Giggino aspirò, profondamente, poi espirò uno sbuffo di fumo, avanzò di fronte a Carmelina, rannicchiata a terra, gli occhi pittati di blu, il rossetto rosso che risaltava la barba rasata quella stessa mattina. Fece per lasciar perdere, arretrò passo a passo. «Allora nu’ sì come a tuo padre, non ti piacciono i ricchioni!» esclamò Enzuccio in una risata, allora Giggino si abbassò fulmineo su Carmelina e la colpì con il casco, forte, in piena faccia. Il sangue schizzò sul terreno e Giggino pensò a sua madre nella lavanderia. Carmelina gridò forte, diede un urlo rauco di maschio, Giggino non sopportava quella voce e la colpì ancora più forte e questa volta il sangue venne giù dal naso mentre Giggino ricordava suo padre, il Brasile e il travestito con cui era scappato.
«Fermati, basta mo!» gridò Enzuccio «prendigli i soldi e andiamo», ma Giggino non ascoltava, colpiva sempre più forte, dritto sul volto, il sangue cominciò a scorrere dalla testa. Poi Carmelina smise di lamentarsi e di dimenarsi.
«Che hai fatto Giggì?!», sussurrò Enzuccio mentre Giggino respirava a fatica, impalato di fronte a quel volto sfasciato.
«Oh, cha hai fatto!» Enzuccio gli tirò un braccio: «Andiamo, mo, muoviti».
Giggino era immobile, poi sollevò il casco insanguinato, raccolse la cicca di sigaretta che aveva gettato a terra e se la ficcò in tasca. Corsero fuori verso spiaggia, saltarono in sella alla moto e partirono. Il sole era ancora alto, solo i soldi dovevano fottergli.
Michelle Grillo