L’incipit del romanzo di Maurizio De Giovanni, Sara al tramonto, ha la rapidità di un montaggio serrato, tra i fotogrammi del quale il lettore si attende qualcosa di inquietante. Il sole si ritira e l’ombra attacca una a una le panchine come un’invasione. Sara è minuta; ha i capelli grigi, le scarpe basse, il vestito scuro. «Sedeva – scrive De Giovanni – sul bordo della panchina, coprendo le ultime lettere di una scritta in vernice che comunque sarebbe stata incomprensibile». Sara su quella panchina è di fatto una macchia, confusa con l’incomprensibilità della vita. Non percepibile da alcuno, osserva le mamme coi bambini, legge sulle labbra le conversazioni dei passanti, ricostruisce segreti da posture e tic appena individuabili.
Ogni oasi è luogo di riparo, non solo del viandante, ma anche del caos che cerca dimora in una grande città come Napoli. Allo stesso modo di un film di Hitchcock o di De Palma, vediamo retorici primi piani su esitazioni, parole trattenute, segreti perversi, proprio mentre il parco (“Gentilezza verde difesa dalla fame delle auto”) annuncia un cambio di scena: ai bambini seguiranno presto coppiette e – più tardi ancora – i commerci illegali della notte.
In seguito alla morte dell’uomo amato, per il quale un tempo abbandonò marito e figlio, Sara lascia un’unità non ufficiale di investigazione governativa. Quello che era per lei uno strumento di lavoro (leggere i segni del corpo), diventa l’esercizio di una donna precocemente invecchiata in un parco pubblico. Forse aspetta un’occasione di rinascita. La prima gliela offre Viola; è incinta del figlio che Sara lasciò ancora bambino (di recente morto in un incidente).
Una seconda chiamata alla vita viene da un’ex collega. La invita a vigilare su una bambina, la cui madre tossicodipendente è stata condannata per omicidio. L’ispettore di Polizia che l’ha arrestata – Davide Pardo – pensa sia in pericolo. Prima esitando, poi sulla spinta di strappi sempre più decisi, si metterà a capo di una squadra simile a una “famiglia” improbabile. Sara, Davide Pardo e Viola (col suo bambino nella pancia) sono personaggi che hanno un lutto alle spalle e – forse proprio per questo – si pongono di evitare quello di un’innocente.
De Giovanni all’apparenza scrive un poliziesco, ma qual’è l’enigma che pone al lettore? La sensazione è che il “segreto” riguardi l’investigatore. Sara è una donna assediata dai propri fantasmi, urticante, capace di mordere chiunque si avvicini troppo. Ci si chiede: perchè Sara si nasconde dietro una sagoma anonima? Cos’è morto in lei per renderla così arresa?
Affidarsi alle parole presuppone in una voce crepe profonde, possibili da perdonare solo per amore. Essere stata ignorata proprio sull’orlo di una “crepa” del dire («Te ne sei andato – dirà a all’ex marito – proprio nel mezzo di una mia frase, mentre cercavo di articolare un pensiero, di spiegarti una necessità»), ha implicato in Sara la ricerca di un nuovo ascolto, di un nuovo amore (un uomo assai più grande di lei), alla morte del quale muore anche la fede nella vita. Il punto esposto del romanzo, il suo basso ombelico, è proprio la distratta attenzione di chi dice di amarci, capace alla lunga di avvelenare il desiderio e trasformare tutto in risentimento, odio, follia.
Negli eroi di De Giovanni, tutto ciò prende forma nel sintomo dell’insonnia. Sara la notte ha paura di consegnarsi ai suoi fantasmi, ma anche al desiderio. Davide Pardo ha comprato un grande letto con l’idea di dividerlo con una donna, ma – chissà perchè – si trova ora a contenderlo con Boris (un enorme cane Bovaro del Bernese), «l’unico essere vivente che era riuscito a convivere con lui per più di un anno». Sara definirà quell’improbabile legame “un matrimonio a perdere”. Viola cerca di difendersi dalle persecutorie cure di sua madre, attendendo sveglia di notte il bambino che sente vivere nella sua pancia come un “alieno”.
Tuttavia Sara si sentirà sempre più ingaggiata nella ricerca della verità, trovandosi inevitabilmente a evadere dal cono d’ombra della propria solitudine morale. Non si può nascondere troppo a lungo il fondo nero del proprio cuore. Questa oscurità – come quella del parco al tramonto – non è solo un’invasione “aliena”, ma un ciclo che fa seguire vita a morte, luce a ombra. È proprio nel pendolo di questa giostra – sembra dirci De Giovanni – che sta il filo della storia di Sara, ma anche il nostro di uomini.
Cos’è che ci rende inadatti alla vita? Cosa ci fa fuggire proprio quando si tratterebbe di restare? Cosa ci fa paura nell’essere amati? Per alcuni che trovano nella domanda ragione di andare in fondo (Sara, Davide Pardo e Viola), ce ne sono altri che nutrono il proprio “cuore nero” col risentimento e la vendetta. Contro la vita colpevole di togliere ciò che promette? Un buon compromesso – sembra suggerire De Giovanni – può essere quello di farsi amici i propri fantasmi, con la fiducia che al mattino la luce li farà gentilmente congedare, prima di tornare ancora. Solo così dormire non sarà più tanto spaventoso.
Vincenzo Carboni
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