Se un fotografo muore a Kabul i giornali ne parlano, le persone guardano con un interesse nuovo le sue fotografie, ne osannano il lavoro, predicano la pace. Nel doppio attentato del 30 aprile a Kabul, oltre al fotografo Shah Marai, hanno perso la vita altre ventiquattro persone. La settimana precedente, un’altra esplosione aveva provocato sessanta vittime.
perché un fotografo non è parte di quel mondo lì, quello dove le bombe esplodono una settimana sì e l’altra pure, tanto che ormai si è fatta l’abitudine. Shah Marai era un fotografo della Agence France-Presse, responsabile della redazione di Kabul, ma era nato nella capitale afgana quarantun anni fa. In un certo senso, era un afgano occidentalizzato. Con le sue fotografie era riuscito a creare un canale tra quel mondo lì e questo qui, a renderci partecipi di una storia che non viviamo sulla nostra pelle, che percepiamo solo attraverso il filtro imbonitore e scacciapensieri dei media.
Le fotografie di Shah Marai mostrano il lato crudo e poetico della sua terra: i soldati con la toppa USA sul braccio; le donne che sembrano fantasmi blu senza occhi; i bambini feriti, a lavoro, con le armi in mano; le case ridotte alla precarietà delle macerie. Ma anche l’incanto dei paesaggi; i movimenti degli artigiani; la commozione di certi gesti; la semplicità dei giochi.
Shah Marai è stato uno dei punti di vista più autentici su ciò che accadeva nel suo paese: anche quando nel 2000 tutte le agenzie di stampa erano state mandate via dall’Afghanistan, solo Marai rimase a coprire la storia di Kabul. Una storia che abbraccia gli attentati sanguinosi e gli incontri istituzionali tra Hamid Karzai – primo presidente eletto del paese – e gli altri leader stranieri.
Un fotografo reporter, ma anche un padre. Aveva sei figli, di cui l’ultima nata quindici giorni prima dell’attentato. Le sue fotografie avevano fatto il giro del mondo, erano state pubblicate sulle riviste di molti paesi. Il New York Times ricorda il suo contributo all’informazione internazionale con queste parole: «Our friend, the great photographer Shah Marai […] He was doing his job, like over two decades» (Il nostro amico, il grande fotografo Shah Marai […] Stava facendo il suo lavoro, come fa da due decadi). Da vent’anni Marai svolgeva il suo lavoro con passione e coraggio:
Lavoravo con una piccola Reflex che dovevo nascondere in una sciarpa avvolta intorno alla mano.
I talebani odiavano i giornalisti e dovevo tenere un profilo basso.
L’attentato che ha tolto la vita a Shah Marai aveva come obiettivo la stampa: con lui hanno perso la vita altri otto reporter. Certi episodi commuovono, scuotono le coscienze, animano nuovi desideri di pace, ma finiscono per essere dimenticati in fretta. Il lavoro di un fotografo come Marai inverte la tendenza comune a cedere alle lusinghe dell’oblio; supera le parole e si imprime con la vivida forza dell’immagine: certe asprezze della vita catturate dal suo obbiettivo difficilmente le dimenticheremo.
Anna Fusari
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