Margaret Atwood: la parola come atto erotico e di trasgressione
Il racconto dell’ancella è un romanzo pubblicato da Margaret Atwood nel 1985. La prima edizione ebbe successo: ne furono vendute milioni di copie, suscitò scandalo e qualche anno dopo ne venne tratto un film da Volker Schlöndorff. L’opera è recentemente tornata a circolare di lettore in lettore, probabilmente grazie al riadattamento per l’omonima serie tv sotto la direzione di Bruce Miller.
Di cosa stiamo parlando?
La trama
Realtà distopica in un tempo imprecisato. Negli Stati Uniti, la sterilità di ambo i sessi minaccia l’estinzione. Le uniche donne in grado di avere figli vengono sottoposte a un terribile lavaggio del cervello e a un’oscena rieducazione per essere trasformate in Ancelle. Ogni Ancella viene poi assegnata a ricche e potenti coppie sterili per aiutarle a concepire.
L’atto è semplice: una volta al mese, nel suo giorno più fertile, l’ancella si stende sul letto della camera padronale, vestita, alzando solo la gonna. Dietro di lei, con le gambe aperte e i suoi vestiti stretti e severi, si siede la Moglie di casa. La testa dell’Ancella è posata sul suo grembo e la moglie le tiene i polsi. Il Comandante, l’uomo di casa, si accoppia con il corpo dell’Ancella, gli occhi dritti davanti a sé ad incrociare quelli della Moglie. Per non infrangere il sacro vincolo del matrimonio, perché l’ancella sia solo un prolungamento fertile del corpo morto della moglie, perché non esistano concubine, non esista erotismo.
Non a caso, il mantra della dittatura, recitato costantemente nei Centri Rossi dove le Ancelle vengono rieducate dalle Zie, è anche epigrafe del romanzo ed è tratto dalla Genesi, 30; 1-3
Ora Rachele vide che non poteva partorire figli a Giacobbe, perciò Rachele divenne gelosa di sua sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, altrimenti muoio». Giacobbe si adirò contro Rachele e rispose: «Tengo io forse il posto di Dio, che ti ha negato il frutto del grembo?». Allora ella disse: «Ecco la mia serva Bilha. Entra da lei e lei partorirà sulle mie ginocchia; così anche io potrò avere figli per suo mezzo».
Le Ancelle non hanno nome: vengono chiamate con il nome del Comandante cui sono state affidate più il suffisso possessivo “di”, in inglese “of”. La protagonista del romanzo di Margaret Atwood è una di loro, e più precisamente Difred (Offred, in inglese).
In questa teocrazia totalitaria basata sul controllo del corpo femminile, i ruoli sono gerarchicamente definiti. Le Ancelle vestono di rosso, indossano cuffie con delle alette laterali. Le Mogli vestono d’azzurro, le Zie in marrone, le Marte (praticamente le domestiche) in verde.
I colori hanno valore semantico, oltre che estetico. Il racconto dell’ancella è infatti una storia fatta di immagini: le descrizioni di ambienti e personaggi sono come una lenta cinepresa che si muove senza fretta e che talvolta indugia su dettagli apparentemente di contorno, che vengono però caricati fino all’estremo di significati simbolici. Capita che questa caricatura risulti ridondante, e che talvolta le metafore perdano di fascino, poiché il nesso metaforico viene evidenziato troppo esplicitamente e non è affidato all’inferenza del lettore; ma la Atwood è una narratrice scaltra ed eccezionale, e riesce a giocare così tanto sull’identificazione e l’emotività, che questi scivoloni sono tutto sommato ininfluenti, e comunque rari.
Teocrazia, si diceva. I rivoluzionari che hanno rovesciato con un colpo di stato il governo degli Stati Uniti hanno la Bibbia sotto il braccio e la loro personale inquietante lettura del Testo Sacro è il fondamento di una Legge unica e inattaccabile, pena la morte.
Ma in questo ritorno nostalgico a un passato di finta castità c’è in realtà il cardine strutturante di tutto il romanzo, origine non solo di eventi, narrazione, ma anche di dialoghi, ambientazione e contesti.
Infatti, il continuo stridore tra raffinata tecnologia per il controllo delle menti e delle vite e l’annullamento della privacy governa dall’alto il mondo; mentre dal basso, il mondo è quasi vittoriano, epoca per convenzione storica – magari errata, ma non è questo il punto – di purezza e inibizione: abiti lunghi, cuffiette, cesti di vimini per fare la spesa, pendole, formule di socializzazione codificate e formulari – per esempio il saluto classico rivolto alle ancelle: Blessed be the fruit, sia benedetto il frutto, e l’Ancella risponde: May the lord open, possa il Signore schiudere.
La serie tv e la forza dell’immagine
La serie tv di Bruce Miller fa sue molte delle caratteristiche che abbiamo finora attribuito al romanzo di Margaret Atwood: l’indugiare della cinepresa non solo sui volti in primissimo piano, ma anche sugli oggetti; la saturazione altissima di alcuni elementi, ad esempio i vestiti rossi delle ancelle, in netto contrasto con gli ambienti grigi e spenti. Ma sono soprattutto le potenzialità intrinseche del mezzo audiovisivo a portare al massimo esplosivo lo stridore di cui parlavamo poco fa, tra estetismi “vittoriani” e ambientazione futuristica. In che senso?
Prendiamo ad esempio in considerazione la colonna sonora. La maggior parte delle scene drammatiche è accompagnata da motivi strumentali composti appositamente da Adam Tylor; ci sono alcune scene, però, soprattutto in fine di puntata, che vengono accompagnate invece da pezzi tutti appartenenti alla contemporaneità, da Nina Simone ai Cigarettes After Sex passando per Gwen Stefani. L’effetto straniante attiva un processo di avvicinamento dello spettatore agli eventi. Se guardiamo scene che riteniamo lontanissime anche dalla sola ipotesi di una nostra quotidianità, e poi parte Feeling Good, scatta in noi il meccanismo del tanto-lontano-poi-non-è.
Un’altra delle caratteristiche che la serie riesce ad amplificare con più fluidità rispetto al mezzo scritto sono i continui dislivelli e slittamenti tra il racconto di Difred, la protagonista, e il suo punto di vista.
Mi spiego meglio. Il racconto dell’ancella, il romanzo, è scritto in prima persona. Nelle maglie molto strette della progressione narrativa, spesso è difficile per il lettore filtrare, e separare in maniera netta, quelli che sono i vissuti emotivi specifici di Difred dallo srotolamento effettivo dei fatti. Vedendo tutto con gli occhi di Difred, rischiamo proprio per questo non percepire lo scarto tra ciò che ella vede e ciò che ella pensa.
Nella serie, invece, oltre alle scene concrete in cui, ad esempio, Difred non è presente, e che ci permettono di vedere esperienze e background dal punto di vista di altri personaggi, la storia non avanza con il racconto, ma con i dialoghi; i fatti si evolvono tutti in drammaturgia, con la comunicazione effettiva tra i personaggi. Quando invece le considerazioni e i sentimenti di Difred hanno valenza introspettiva, appartengono tutte al suo pensiero, lo scarto è facilmente ravvisabile, poiché ella non sta parlando con nessuno dei personaggi, le sue labbra mute, la sua voce fuori campo; e in quel momento percepiamo la distinzione tra ciò che pensa lei e ciò che accade.
Margaret Atwood e il primo atto rivoluzionario: la parola
Abbiamo sfiorato così un altro nodo centrale de Il racconto dell’ancella, quello dei dialoghi, della narrazione, delle parole. La parola è la struttura significativa e significante della denuncia distopica della Atwood. La parola, nel romanzo, simboleggia la trasgressione, simboleggia quello che non dovrebbe simboleggiare, ma quello che di fatto è: la materia primaria che plasma il pensiero, le coscienze e di conseguenza le società. Le Ancelle vengono controllate innanzitutto perché non hanno nome, non hanno una parola che le appartenga davvero, non possono (almeno in teoria) leggere, né scrivere, né possono comunicare per più tempo di quello che è loro necessario per scambiarsi formule convenevoli.
Non è un caso che il primo e paradossalmente il più grande atto di trasgressione, nel microcosmo narrativo, compiuto da Difred e dal Comandante, sia quello di vedersi di nascosto dalla Moglie di lui per… giocare a scarabeo. È questo gioco di composizione e scomposizione di parole a dare il via al precipitarsi narrativo degli eventi, non un rapporto sessuale, ma quello che nella realtà distopica del romanzo è un gioco più perverso di qualsiasi gioco erotico. Spostandoci al macrocosmo narrativo, non è nemmeno un caso che il testo sia in prima persona, che costituisca un racconto, la riappropriazione indebita della protagonista del suo debito diritto a raccontare, a scrivere, a parlare.
Spesso Difred si guarda intorno e, nell’esaminare gli oggetti che la circondano, ne ripete la parola che li designa, fino a svuotarla di significato, a concentrarsi unicamente sul suo significante, sulle labbra che si dischiudono la lingua che si muove la salivazione che aumenta l’erotismo insomma intrinseco all’atto di parlare.
Perché in un mondo in cui ogni erotismo è (o dovrebbe essere, ma naturalmente non abbiamo intenzione di fare spoiler) proibito e punito, tutto diventa erotico: anche un cesto d’arance, un nastro, una tessera di un gioco da tavolo.
Beatrice Morra