«Questo libro è per chi non dorme la notte, e legge il Libro dell’inquetudine di Pessoa, per chi si deve comprare un paio di occhiali nuovi e sa già che li prenderà fuori moda, per chi non ha mai pensato di fare yoga e vorrebbe una riproduzione fedele del Golden Record lanciato in orbita con il Voyager nel 1977». Così la quarta di copertina di Sembrava una felicità (NNE, 2015) di Jenny Offill.
Questo libro è il racconto di un’inquietudine notturna che non smette neanche quando il sole è già alto. Sono periodi staccati, eppure connessi tra loro; un violento e implacabile susseguirsi di pensieri angosciati. La protagonista del romanzo di Jenny Offill è una donna nevrotica e testarda, come quelle di Elena Ferrante (ricorda opportunamente James Wood su The New Yorker), che vuole diventare un «mostro d’arte» e non preoccuparsi d’altro che del suo secondo romanzo, ma è una donna. Sì, è una donna e quindi una moglie e quindi una madre:
Il mio piano era non sposarmi mai. No, io volevo diventare un mostro d’arte. Le donne non diventano mai mostri d’arte, perché i veri mostri d’arte si preoccupano solo d’arte e mai di cose terrene. Nabokov non si chiudeva nemmeno l’ombrello, era Vera che gli leccava i francobolli.
C’è la storia di un detenuto di Alcatraz che passa le sue notti di isolamento a lanciare un bottone per terra per poi mettersi a cercarlo al buio. Ogni notte, inganna il tempo in quel modo, fino all’alba. Io non ho un bottone. Ma per il resto le mie notti sono come le sue.
I pensieri di «lei» sono brevi e feroci, lanciati sulla pagina e circondati da spazi bianchi, ma in qualche modo il filo della narrazione esiste e il lettore non fa fatica a seguirlo. In quegli spazi bianchi si insinuano inconsciamente le sue deduzioni, il suo immedesimarsi in quelle frasi diabolicamente realistiche. C’è un filo, ed è la storia di una donna che chiunque si vergognerebbe di essere: con un estro creativo schiacciato, una vita con zone d’ombra imbarazzanti, una testa che è un viavai di immagini che scavalcano il limite della razionalità.
A ciò si aggiungono le citazioni, una vastissima collezione di citazioni. Si ha quasi l’impressione che la storia vi sia stata cucita tutto intorno: «L’autrice stessa rivela in un’intervista alla Paris Review che il testo pullula di citazioni e curiosità scovate attraverso quella che lei chiama la “library roulette”: quando non riesce a scrivere va in biblioteca a sfogliare libri di ogni genere in cerca di spunti interessanti. Dai classici – Ovidio, Socrate, Esiodo, Ipparco, Talete, Anassagora, – ai poeti – Coleridge, Yeats, Berryman, Rilke, Keats, Dickinson, – agli scrittori – Kafka, Singer – ai proverbi, cinesi, buddisti, fino a Simone Weil, Kant e Wittgenstein, o a inventori e scienziati come Edison e Darwin».
Così la traduttrice, Francesca Novajra, nella nota Pensieri, parole, opere e omissioni (e quanto si può lasciare di non detto), in cui cerca di spiegare la scrittura di Jenny Offill oltre la traduzione: «Cercare di distillare quello zibaldone di pensieri, “quella” voce in italiano, è stato laborioso, ho lavorato in punta di piedi e ho fatto tante letture a voce alta delle diverse stesure». Jenny Offill è una donna erudita, professoressa di Scrittura alla Columbia University, alla Queens University e al Brooklyn College. Autrice, secondo il New York Times, del “Notable Book” dell’anno e finalista per il Los Angeles Times First Book Award, con il romanzo Last Things. Con Sembrava una felicità, Offill è stata anche finalista del Folio Prize. Tutto questo si percepisce attraverso la sua scrittura. La sua voce si traduce a fatica. Anche, e soprattutto, perché è fortemente americana. Lo è nell’uso onomatopeico delle parole, nei giochi mnemonici, nei rimandi, nella geografia di contorno i cui elementi sono sconosciuti o comunque muti all’orecchio del lettore.
Offill ha scritto un romanzo di un potenza tale che neanche la perdita di questi elementi riesce a scalfirne l’impatto sulla coscienza del lettore. Un libro molto femminile, e per donne forti.
Anna Fusari
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