Disturbi di luminosità di Ilaria Palomba
Disturbi di luminosità di Ilaria Palomba (Gaffi editore) è un libro sui generis che non può essere certo definito un romanzo ma tutt’al più un autofiction, come si legge del resto nel risvolto di copertina. A tal proposito, però, occorre fare una precisazione, non si tratta semplicemente di un antiromanzo che scardina le strutture e le tecniche del romanzo tradizionale, né di un’autobiografia romanzata che si affida alla memoria e all’immaginazione per creare un universo narrativo che abbia un minimo di verosimiglianza, bensì di un testo (così lo definisce la stessa autrice) che si serve del potere della scrittura e utilizza le parole come sonde capaci di rivelare la struttura dell’inconscio.
Il libro
Soddisfatte – almeno spero – la curiosità e l’esigenza di lettori e addetti ai lavori sempre propensi a definire, incasellare e catalogare, passiamo a una disamina più diretta e attenta di questo stupefacente testo che potrei definire, anche per la sacralità che lo connota oltre che per gli espliciti rimandi letterari, una vera e propria epifania a cui tutto concorre dal titolo al progetto grafico, al racconto finale di Anna Corsini, ai versi della quarta di copertina. Il titolo rimanda immediatamente a disturbi di personalità, a una situazione borderline con tutte le conseguenti manifestazioni a livello identitario, comportamentale e relazionale, ma anche a un’alternanza buio/luce che è una costante del testo in oggetto, una delle tante coppie opposizionali o antitesi che si rilevano non diversamente da dentro/fuori; pieno/vuoto; presenza/assenza; odio/amore; scissione/comunione; vita/morte. Il progetto grafico di Maurizio Ceccato con una gabbia in primo piano allude alla prigionia in cui viene a trovarsi per sua stessa ammissione la protagonista ogniqualvolta instaura una relazione di amore, di amicizia o soltanto di sesso. Il racconto conclusivo Pomeriggio al cinema di Anna Corsini non è soltanto un omaggio a Cose da pazzi di George Wilhelm Pabst, uno dei maggiori registi della prima metà del ‘900, maestro indiscusso dell’Espressionismo tedesco, ma ha come protagonista Franco Basaglia, all’epoca giovane professore dell’Università di Padova, che si sarebbe poi imposto all’attenzione di tutti come psichiatra d’avanguardia. I versi conclusivi di Ilaria Cancellieri sono un inno alla sregolatezza ma anche alla capacità di non estraniarsi dal proprio tempo e di “vivere calati nell’inferno con la marmorea volontà di capirlo”, come dice testualmente Pasolini ne Le ceneri di Gramsci dove predica, tra l’altro “lo scandalo del contraddirsi”.
Non è un caso che nel lungo, inesausto monologo interiore di Ilaria Palomba venga citato Pier Paolo Pasolini come autore delle Ceneri di Gramsci e di Ragazzi di vita né ciò deve meravigliarci per l’incombenza costante della morte, che esercita sull’autrice una forte e pericolosa attrazione, e per la sua predilezione per le borgate, per le zone periferiche più disastrate, che diventano il correlativo oggettivo del suo mondo interiore fatto di macerie spirituali, ideologiche e affettive. Anche la dedica “A chi non ha saputo amarmi” rivela il suo vuoto interiore, la sua profonda tristezza, il suo lancinante dolore e quella solitudine che come dice nell’ultimo capitolo, quello risolutivo, “è diventata la più colloquiale delle dame di compagnia”, ma rivela anche e soprattutto la sua fragilità che le impedisce benché trasformata da crisalide in farfalla di spiccare il volo. Questa fragilità scaturisce dallo stupro subìto a dodici anni ed è proprio con l’immagine del ragazzo delle altalene, dai denti corrosi e giallastri, che fruga con avide dita nelle mutandine della protagonista, mentre nelle orecchie si sente il cigolio ipnotico delle altalene, che si apre questo viaggio nell’inconscio, questa discesa agli inferi, in compagnia dell’Oracolo, più Caronte che psichiatra, che la segue durante il suo vaneggiare, in cui mescola ricordi, sensazioni e incubi, senza distinguere gli uni dagli altri. L’Oracolo non ha un nome proprio come del resto la protagonista e tutti gli altri personaggi che abitano la sua mente e il sottosuolo nell’accezione dostoevskiana del termine: Lui, oggetto di odio e di amore; Lei, una doppelgänger, simile e opposta alla protagonista; Narciso, un manipolatore narcisistico che oscilla tra amore e odio e non diversamente da Lui è un archetipo più che una persona reale, e, infine, i mostri, astratti o reali (ma c’è poi una effettiva differenza?) insonnia, avidità e paranoia ma anche lupi, ratti e scarafaggi che prolificano nel buio, come nel bellissimo esergo tratto da Psicosi di Sarah Kane, e che vengono messi in fuga da un raggio di sole. L’altro esergo fa parte di La libellula, un poemetto di Amelia Rosselli, e inneggia alla libertà – e non poteva essere diversamente, dal momento che Carlo, il padre di Amelia, era stato tra i fondatori di Giustizia e Libertà – e alla inesausta, eterna ricerca del bello e infatti uno dei capitoli del libro di Ilaria Palomba si conclude con questa frase: “Nonostante tutto la bellezza esiste” e in precedenza aveva affermato “Non riesco a smettere di guardare la bellezza”.
«Vivere calati nell’inferno con la marmorea volontà di capirlo»
La violenza subita induce la protagonista in un primo tempo a odiare il proprio corpo, a esercitare, non senza una buona dose di masochismo, ferite e lacerazioni, sottoponendolo a performance dolorose e a pratiche sessuali trasgressive come la promiscuità, l’urofilia e il bondage nel desiderio di profanarlo in tutti i modi prima di renderlo totemico, oggetto di totale venerazione, da parte sua e di tutti coloro che l’avvicinano. Autolesionismo e narcisismo si confondono e si accavallano in questo miscuglio contraddittorio di smania confessionale e instabilità psicologica, di regressione pulsionale e di manipolazione tecnologica. Penso ai rave, alle “notti ancestrali”, all’ebbrezza del vino e dell’hashish, alle piste di polvere bianca, ai francobolli da leccare, alla musica assordante e le parole acquistano in questo caso il ritmo martellante di una drum-machine.
Questi rave portano la protagonista e il suo doppio a Milano e a Berlino; il viaggio, infatti, non è solo interiore. Non ci si sposta soltanto con la mente ma anche con il corpo e allora assistiamo a veri e propri pellegrinaggi nei santuari della filosofia, della religione e della cultura. Da Katmandu, culla del Buddismo e dell’Induismo, da cui la Palomba deriva i concetti di Maya e di Ātman, a Parigi in ossequio a Deleuze e Guattari, così presenti nella sua weltanschauung, per il rifiuto della psicanalisi freudiana e per il pensiero rizomatico, il nomadismo, cioè, del pensiero e della vita; a Dublino sulle tracce di James Joyce, alla ricerca di Molly Bloom e del suo monologo interiore, a cui in questo libro la Palomba sembra ispirarsi, anche se mostra di conoscere altrettanto bene Italia de profundis di Giuseppe Gennasorta di fluviale magma cerebro-viscerale. Tra le tappe del suo pellegrinaggio reale c’è anche Bari, città d’origine dell’autrice, e il Salento, con l’odore del mare e i bagni di sole, dove trascorreva le vacanze estive e dove la sua adolescenza è stata violata, negata e sordidamente interrotta. E la perdita dell’innocenza ha determinato per lei la cacciata dall’Eden e l’inizio della Via Crucis.
Non mancano riferimenti o vaghi accenni all’attualità: migranti sui barconi della morte in balia dei marosi e terroristi pronti a tutto; così come non manca il gusto dell’autocitazione, mi riferisco a Mancanze, la sua ultima opera in versi e a I buchi neri divorano le stelle la sua prima silloge poetica. E anche questo non può meravigliarci perché come dice Vittorio Giacopini “La molla dell’arte è il narcisismo” e in Ilaria Palomba esso occupa un posto di rilievoanche perché oggi tutti sono ossessionati dalla propria unicità e al contempo dalla sua negazione, mi torna in mente J’est un autre di Arthur Rimbaud.
Narciso era l’immaginario. Costruiva castelli in aria e ci andava ad abitare, mi portava con sé. Ci facevamo male con il piacere. Ci amavamo al modo dei santi. Bataille sarebbe stato contento.
Ci sarebbero tante altre cose da dire su un testo così ricco, corposo, pregno concettualmente ed emotivamente denso, ma finirei con l’annoiare i lettori o col depistarli per cui, facendo mio l’invito dell‘autrice, vi consiglio di leggere questo libro straordinario, di abbandonarvi all’onda delle emozioni, alla suggestione delle immagini, alla non comune bellezza delle parole che affiorano dal sottosuolo, attraverso la tecnica del flusso di coscienza, e s’impongono in tutta la loro efficacia semantica e timbrica.
Francesco Improta
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