Testimonianze, racconti, confidenze, saggi in cui la sfera privata è inscindibile dal percorso professionale. Questi i capitoli senza numero che riempiono la prima parta dell’almanacco di poesie dedicato alla memoria di Giovanna Sicari.
Si comincia con le parole del marito di Giovanna, Milo De Angelis. Egli parla della sua vocazione per la poesia come un destino ineluttabile alla quale l’anima di sua moglie non ha potuto che piegarsi con il sorriso sulle labbra. Da ogni parola traspare tenerezza e stima, attenzione per quella persona raccontata nei dettagli, autentici scrigni della sua rarità. La poesia la rapiva per ore, un getto di parole e immagini difficile da contenere nelle ristrettezze di un foglio. Niente correzioni, piuttosto l’eliminazione. Un approccio romantico e ormai lontano all’arte poetica, troppo spesso il risultato di studio e incastri metrici.
Elio Pecora usa l’espressione «passione indomabile» ‒ nello spazio della sua privata reminiscenza – per descrivere la poesia di Giovanna. Coloro che l’hanno amata fanno conoscere ai lettori una figura femminile e infuocata.
Roberto Deidier sviluppa un discorso intenso ed emozionale ripercorrendo i tratti del suo sorriso e dei suoi occhi, risultato di una lunga e amata concentrazione. Secondo la sua opinione, la poesia era l’unica strada percorribile da Giovanna per essere accettata e percepita: vista, interamente. Si sofferma anche sulla fatica e l’attesa di essere riconosciuti, pubblicati; una sofferenza dello spirito non dell’ambizione.
Biancamaria Frabotta racconta con una poesia in prosa, sicura e precisa parla quasi senza fiato di questa Giovanna unica, fatta di umile tempesta, nata per lasciare il segno. Il suo destino di stella si mostra plateale fin dai suoi primi versi. Il saggio si conclude con Tre poesie disperse. Un’analisi di questi brevi componimenti si porrebbe al lettore quasi come una mancanza di fiducia. La poesia va letta e sentita, è un atto privato, inviolabile. Ci si limita a notare la forza delle parole utilizzate: estreme, taglienti, partorite con la punta affilata.
Una vecchia foto è lo strumento di lettura di Luigi Fontanella per sondare lo spirito che Giovanna usava per riempire la sua poetica, senza mai arrendersi. Ritorna l’immagine della possessione: «Giovanna era posseduta dalla poesia». Commovente la conclusione di questo piccola testimonianza, intima e discreta.
Nella sezione dedicata all’opera della Sicari, Giorgio Linguaglossa si sofferma sul linguaggio semplice fatto di parole spoglie impresse in un costrutto mai banale, sempre volto alla comunicazione più ampia ed efficiente.
Per Elio Grasso il vero talento di un grande comunicatore, di un’artista del mondo e della gente si percepisce nel moneto in cui scrivendo della propria vita – dei suoi traumi e dei suoi eventi – si raccontano frammenti di vita comune, in cui tanti si trovano e si riconoscono.
Nella testimonianza di Pino Corbo arriva l’immagine di una poetica dicotomica: sempre sulla soglia tra interno ed esterno, tra la vita privata e i contesti al di fuori di questa. La poesia come parola: la parola come impietosa portavoce della verità, della realtà.
Gabriela Fantato percepisce nella produzione della Sicari una tensione tra umano e divino, una visione della religiosità intima e carnale. Si parla di visione francescana della religiosità, il cui nucleo vitale risiede nella parola e nella comunicazione tra tutti gli uomini e tutte le creature.
Anafore, anacoluti e allitterazioni sono i primi ingegni stilistici della lirica di Giovanna, già visibili nella raccolta “Decisioni” su cui la Fantano – come gli altri testimoni del suo percorso poetico – decide di soffermarsi per illustrare al lettore l’evoluzione della sua lirica.
Ogni saggio è una dedica densa di sensazioni e ricordi ben custoditi e Giovanna è meravigliosa da qualunque angolatura la si inquadri. Non è mai morta, il suo volto e la sua risata, il suo animo guerriero e la sua enfasi, così finemente descritti da tante diversissime voci, sono immortali, come la sua poetica.
Di seguito, nell’antologia poetica, si possono leggere alcuni dei mille ventricoli di Giovanna.
da Decisioni, 1986.
Mattino aperto
io nuda senza ritorno
il verso estratto del componimento ha un impressionante impatto visivo: forte e immediato. Un linguaggio senza filtri, alla portata di qualunque attenzione, di chiunque sia disposto ad aprire la mente e il cuore a tanto dialogo. Ogni verso è un colore, ogni colore una frusta che vibra nello sguardo del lettore, imprimendo il segno di un contatto.
da Sigillo, 1989
Siamo a bordo.
L’aquila cadde vicino a me, volle farmi guerriera,
la magia dell’uccisione non fu torneo
ma scontro fra due uomini, in un attimo la verità
divenne merce di contrabbando.
Non fu femminile vendetta ma innegabile somiglianza
a un battesimo di sangue virile.
La sestina che fa da prologo alla poesia è un altro schiaffo a bruciapelo. Si ritrova il sangue e la carne, ancora una volta strumenti di giudizio e forma poetica: sono lenti per mettere a fuoco l’esistenza, utilizzati dalla poetessa con la disinvoltura di chi ha sempre saputo cosa dire.
Giovanna non è sola in questa raccolta, altre donne, altre maestre della lirica, la accompagnano in questo almanacco con la loro storia e i loro versi. Adesso è il turno di Fernanda Romagnoli. Il tredicesimo invitato è il suo manifesto poetico. Una donna schiva, tormentata dalle sue identità, lontane spesso e volentieri dai binari della società. Un’anima in costante contrazione, segnata dai ruoli della sua epoca e dal suo bisogno di evadere per ritrovarsi e curarsi attraverso i suoi versi.
Dopo la Romagnoli il ritmo della raccolta cambia: si aprono delle piccole antologie poetiche divise per zone della penisola: Nord, Centro, Sud e insulare. Infine un’altra breve raccolta dedicata a giovani poetesse degli anni Novanta. L’ordine con cui le donne sono presentate al lettore è analogo per tutte: una piccola biografia seguita dalla testimonianza di un loro “vicino”, che sia un collega, un amico, un editore o semplicemente un loro grande appassionato. Poi lo spazio viene dedicato ai loro componimenti e le poesie scorrono veloci parlando in un soffio delle loro creatrici, come le formule di un’alchimista. Ogni donna ha il suo tratto e la sua storia, forse dall’apparenza comune a un occhio distratto. Ma le loro poesie sono come impronte digitali che parlano per mezzo della stessa lingua inconfondibile: la poesia. Proseguendo la lettura dei versi l’intero Stivale guadagna i colori della poetica. Un quadro astratto perde forma da questa appassionata raccolta: un Pollock fatto di canti e metafore.
Doveroso un breve accenno per ognuna di loro.
Nella piccola antologia poetica del Nord Italia si incontrano Maddalena, Lucia e Fosca.
Naufraghi di Maddalena Bertolini è un inno all’amore e alla paura della vita, quella fatta con il copro che si fonde con la terra.
Qui ora è la poesia intensissima sulla vita e sulla morte di Lucia Gaddo Zanovello. Il ritmo sinuoso e sinonimi ricercati creano l’atmosfera di un canto mistico sussurrato tra conscio e inconscio.
Fosca Massucco comincia e basta, irrompe. «Trovo pietre nella cenere del pane» potrebbe essere il verso emblematico del componimento scelto dalla raccolta: la fotografia di questa sinestesia stringe la pancia in una presa salda.
Simona, Cristina e Elisabetta parlano nella piccola antologia poetica del Centro Italia.
La poesia di Cristina Laghi sembra una voce familiare rivolta a quell’intimo che ci rende tutti fratelli della stessa madre.
Natura animale e parti del corpo, ecco la combinazione degli scritti di Elisabetta Maltese. I suoi versi descrivono ambienti osservati con il naso in su.
La piccola antologia del Sud è composta da Maria, Francesca e Mara.
I versi di Maria Pina Ciancio sono pieni di tutta la sua terra d’origine, pervasi dall’odore di salsedine.
Francesca Dono si richiama spesso al clima per disegnare i profili della sua poetica, come il vento, la neve o il Sole allo zenit.
Le allitterazioni di Mara Venuto rendono i suoi componimenti un sussurro veemente: sacro e profano sono le sue ossa.
L’antologia poetica dell’Italia insulare è piena di Valentina, Sarah e Carmela.
Valentina Neri è una riflessione a voce alta tra sé e sé: interrogativi bizzarri costellano un carnale inno all’amore.
Con Sarah Tardino si ascoltano alberi, cieli, rondini e baci. Gli ingredienti della sua lirica semplice e calda.
Carmela Pedone: tre versi e un asterisco, un ritmo incalzate, come gli scatti di una macchina fotografica che imprimono fotogrammi di emozioni sulla pellicola del foglio. Non c’è un’immagine precisa da cercare, solo sensazioni.
Infine, le poetesse nate negli anni Novanta.
Ilaria Caffio canta uno struggente saluto il cui messaggio di addio arriva prima ancora delle parole. Il loro gioco ritmato può dare l’impressione di celare significati, ma solo per un attimo. Ciò che arriva induce ad abbassare lo sguardo.
Il dialetto siciliano di Naike Agata La Biunda spiazza per l’ostilità musicale dei suoi raddoppiamenti sintattici, mentre il contenuto disorienta per la sua verità diretta e semplicissima che lascia in silenzio.
Giulia Martini è ermetica e sintetica: la sua poesia si divide tra linguaggio moderno e arcaico. Istiga il lettore a indugiare a lungo sui suoi versi per carpirne il segreto.
Tutte queste voci di donna possiedono la vera arte di saper gridare e sussurrare contemporaneamente. Sarebbe banale affermare che siano in grado di parlare all’anima con l’anima: la quotidianità intima che esprimono parlando della propria realtà e dei propri pensieri rendono ogni poesia vicina, cara. Le loro strofe sono come una finestra sulla mente del lettore aperta verso altre finestre di altre menti, tutte legate in un unico bellissimo panorama immaginario. La terra d’Italia deve essere fiera patria di questi versi così pieni e consapevoli della vita da avere il coraggio di parlare anche della morte e del bivio tra i due mondi che chiunque teme. La forza della lirica spinge queste autrici, unendole e trasformandole in un unico volto, proiettate verso lo stesso orizzonte.
Marcella Caputo
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