Un’accusa di affiliazione al partito comunista datata 1987, un processo lungo anni, un isolamento detentivo e una condanna a quindici anni di lavori forzati nel 1993. Lo sfondo era la Siria di Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano Bashar, il reo era Faraj Bayrakdar – un attivista, un politico, un poeta.
La cella, le sue sbarre, il tuo tanfo sono forse le più grandi certezze nella vita di un prigioniero politico, che ignora ciò che accade all’esterno e cosa ne sarà di lui quando gli verrà resa la libertà. Il suo quotidiano è tutto lì, in quel luogo angusto, stretto, inospitale, nel quale è paradossalmente semplice perdersi e non ritrovarsi mai più.
Tuttavia, Faraj riesce a sopravvivergli e lo fa grazie alle parole, all’immaginazione che tramuta in poesia, alla necessità di esistere al di là dei lavori forzati e della detenzione.
È un’introduzione, invero, molto particolare quella che preannuncia la raccolta: ha la parvenza di una testimonianza ragionata a lungo ma scritta di getto, dove sembrano mescolarsi emotività e lucidità – non nemiche, ma complici. Pagine in cui Faraj prepara il suo lettore a ciò che troverà sussurrato nei versi, disseminato tra una poesia e l’altra: non un progetto editoriale inteso alla maniera contemporanea, ma un contenitore sgraziato di speranze, paure, dolori e aspettative. Quelli del poeta siriano sono versi che splendono di una bellezza resa opaca dal tanfo della cella, ed è questo a renderli unici e testimoni di un importante spaccato di vita.
«In Siria un detenuto politico non ha bisogno di molto tempo per accorgersi che il carcere è un tentativo meticoloso di togliere senso all’essere umano, anzi di togliere senso e basta. Ogni tentativo di creare un senso è un atto di resistenza contro il carcere e i suoi strumenti. Credo che niente riesca a produrre senso più della poesia, grazie al suo legame con l’immaginazione, che non può essere imprigionata.»
A curare la traduzione dall’arabo per l’edizione italiana de Il luogo stretto è stata Elena Chiti, che ha tessuto questo progetto assieme alla casa editrice Nottetempo. La pubblicazione della versione italiana risale al 2016, anno che ritrae una Siria diversa da quella che ha conosciuto Faraj negli anni precedenti e contemporanei alla prigionia – una Siria, se possibile, ancora più problematica e caotica.
Tuttavia, malgrado il contesto siriano sia radicalmente mutato nel corso di questi ultimi anni, Il luogo stretto resta in piedi, non solo come testimonianza o come prodotto letterario, ma anche e soprattutto come fotografia in versi della forza intrinseca della parola e della capacità immaginativa dell’essere umano.
Faraj non è stato il solo a credere in questa forza e in questa capacità, non è stato il solo a trovare riparo, sfogo e conforto nel linguaggio artistico – la storia letteraria trabocca di esempi a riguardo pur senza voler scomodare secoli troppo addietro: la celeberrima epistola di Wilde nota a tutti come De Profundis o i versi di Panagulis esprimono, al di là di epoche e motivazioni, la stessa necessità di trovare riparo nelle parole. La poesia è stata per tutti loro un’azione di catarsi contemporanea al trauma, un modo per sopravvivere e per preservare la propria individualità.
Perché una condanna ingiusta può incatenare i polsi, ma non l’estro, non l’immaginazione, non la forza volitiva di un poeta che ha creduto strenuamente in qualcosa, qualcosa in cui continua a credere nonostante le sbarre.
«[…]
il mio carcere è un luogo
e il tempo
non ha più il diritto di circolare liberamente
o di avere un luogo.
[…]»estratto della poesia Gemiti
Il tempo è un tema ricorrente negli scritti di Faraj. Il tempo cristallizzato dall’assenza di libertà e svuotato di significato dalle sbarre. Il tempo che smette di esistere e che così facendo rischia di collaborare a propria insaputa al processo di alienazione in cui è invischiato il prigioniero – perché senza riferimenti temporali, senza un prima dopo durante, la vita stessa è esposta alla perdita di senso.
È qui, in questo spaccato, che si inserisce la poesia, andando a riempire i vuoti, a restituire senso ai secondi e ai minuti e alle ore, a scandire il prima dopo durante malgrado nel quotidiano del prigioniero non abbia importanza né il tramontare del sole né l’avvento della luna.
Per un regime come quello Hafez al-Assad, basato in gran parte sul culto della personalità, una personalità come quella di Faraj Bayrakdar era decisamente scomoda. Credere nei diritti civili, nella libertà di espressione e nell’importanza del pensiero critico sono atti interpretabili come sovversivi.
Non sorprende, dunque, che la biografia del poeta siriano dia notizia di tre arresti: due avvenuti negli anni Settanta e l’ultimo, il più devastante, nel 1987.
Quelle poesie frutto della prigionia non hanno salvato solo lo spirito del poeta, ma anche la vita dell’uomo. A insaputa di Faraj, come si legge nella sopracitata introduzione, le poesie hanno iniziato a circolare al di fuori del carcere e della ristretta cerchia di conoscenti mentre lui scontava ancora la pena. Il risultato, lungi dai timori del poeta, è stato quello di accendere i riflettori sulla sua vicenda – Amnesty International all’epoca identificava in Faraj un “prigioniero di coscienza”. La campagna internazionale che chiedeva il suo rilascio ha avuto successo e nel 2000 al poeta è stata restituita la libertà.
Oggi vive in Svezia, dove è stato accolto sia come poeta che come rifugiato politico. Mai dimentico del suo paese di origine, continua a seguire le vicissitudini che interessano la Siria, dove a suo avviso è in un corso «una guerra mondiale in miniatura», che assieme all’attuale regime di Assad immobilizza la Siria in una trama fatta di «oppressione e prigionia».
È probabile che sia proprio in questo punto di rottura la forza della poesia: laddove l’uomo è disilluso e stanco, il poeta riesce a scorgere un barlume di significato da tramutare in speranza.
Rosa Ciglio
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