Nato a Kyoto nel 1949, Haruki Murakami ha un rapporto molto particolare con il mondo americano. Dopo essersi laureato a Tokyo, con una tesi sull’idea del viaggio nel cinema americano, aprì un bar. A elementi americani, come il sottofondo di musica jazz, unì elementi giapponesi, come la presenza continua e ossessiva di foto di gatti. Questo sincretismo culturale colmava da un lato il suo horror vacui esistenziale, dall’altro celebrava le grandi influenze adolescenziali che il giovane Murakami aveva subito nei lunghi anni universitari.
Tra i tanti scrittori nipponici che si sono avvicendati nel corso del secolo passato, sono molto pochi quelli che si sono occupati del mondo americano.
Prima della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti erano, semplicemente, parte integrante di quel mondo occidentale che si era manifestato alla fine del periodo Edo. In campo letterario, non esisteva una possibile scissione tra ciò che era Europa e ciò che era America. Questo si può facilmente evincere da uno dei più importanti romanzi del periodo, Io sono un gatto di Natsume Soseki, scritto nel 1905. Nel lungo romanzo, visto dalla prospettiva in prima persona di un gatto che abita nella casa di un letterato decadente, i riferimenti alla letteratura occidentale si sprecano. Al di là di ciò, quello che colpisce è lo stile dell’autore, del tutto simile alla scuola naturalista francese; basterebbe omettere i riferimenti geografici e i nomi esotici per poter tranquillamente trovarsi catapultati nella Parigi di fine Ottocento.
Addentrandoci nella seconda parte del Novecento, ci troviamo al cospetto con autori che hanno diversamente reagito all’afflusso americano nelle opere. Vi è il premio Nobel Kawabata, che rifugge totalmente dal mondo occidentale, trincerandosi dietro una tradizione esasperata come nel romanzo il Maestro di Go, in cui viene esaltata la tradizione a scapito della nuova generazione. Poi abbiamo l’altro premio Nobel giapponese Kenzaburo, il quale ha affrontato in più opere il tema della bomba atomica, in particolare nel recente Note su Hiroshima.
Come si può facilmente evincere, nel Novecento giapponese ci sono molti influssi del mondo occidentale e di quello americano. Prima di Haruki Murakami, però, non vi è nessuno così imbevuto di cultura americana da riverberarla nelle sue opere, esplorandone le connotazioni letterarie e politiche.
Senza fare grandi ricerche enciclopediche, basterebbe leggere una sua intervista, o peggio la pagina italiana di Wikipedia, per scoprire il feticismo dell’autore nipponico per Raymond Carver e Francis Scott Fitzgerald.
Ricorda forse qualcosa?
Al lettore di Murakami, leggere Carver sembra un prolungamento americano della sua anima. Seppure il personaggio Carveriano per eccellenza sia il protagonista anomimo della “Trilogia del Sorcio”, i maggiori influssi della cultura americana si possono estrapolare da due importanti testi del corpus murakamiano, diversissimi tra loro: Norwegian wood e Kafka sulla Spiaggia.
Passa le serate isolato da tutti, nel terrazzo del proprio collegio, a sorseggiare alcolici e a leggere i grandi classici della letteratura americana, tra cui in particolare il Grande Gatsby, fatto che lo avvicinerà al compagno Nagasawa.
Questi due ragazzi sono diversissimi: l’uno introverso e isolato, l’altro estroverso e festaiolo. Solo una cosa li accomuna, una grande inquietudine: esistenziale per Watanabe e sessuale per Nagasawa.
Tra le sottili note del romanzo, in cui Watanabe si allontanerà progressivamente dall’amico, si legge una grande ammirazione per tutto ciò che il mondo americano ha prodotto. Questo cozza con la grande pesantezza della cultura giapponese antica, troppo tradizionalista. Essa non riesce più attecchire con le idee di rivoluzione di quel 68′ in cui è immerso Norwegian Wood. Il messaggio del primo Murakami è semplice: il mondo giapponese è cambiato, non è più disposto a irrigidirsi come il rigido compagno di stanza di Watanabe, “Sturmtruppen”, che scomparirà di scena così come Murakami avrebbe voluto scomparisse la tradizione giapponese.
Tuttavia la politica americana non lo convince, portandolo ad aderire in modo convinto alla rivoluzione sessantottina di Tokyo, costola orientale della ben più nota americana. Sembra quindi esserci una primordiale scissione tra la cultura e la politica americana. Questo atteggiamento sembra derivare da un altro libro che viene citato a più riprese, Il giovane Holden di Salinger, in cui il protagonista dell’opera si diverte a distruggere molti tabù dell’epoca.
In Kafka sulla spiaggia il protagonista è un ragazzino scappato di casa che si è rifugiato in una lontana biblioteca per scoprire le sue radici.
Nel suo viaggio di formazione, sarà accompagnato dal giovane camionista Nishino. Tra sanguisughe che volano dal cielo e improbabili discussioni esistenziali con i gatti, a Nishino apparirà lo spirito di Harland Sanders, fondatore della catena americana di fast food KFC, amatissima in Giappone. Egli, come un demone tentatore, promette tutto e non chiede nulla. Sanders è viscido, volgare, prepotente: regala al personaggio una notte con una splendida prostituta filosofa. Il motivo? Subdolo e imperscrutabile, ossia mettere a tacere la storia di Nakata, pesantemente segnato dalla losca attività americana durante la seconda guerra mondiale.
Se in Norwegian Wood Murakami sembrava ancora in una fase embrionale del suo pensiero, con Kafka sulla spiaggia l’autore sembra lapidario nel criticare la ambiguità della cultura americana. Essa prima essa crea il danno, compromettendo irrimediabilmente la sanità mentale di Nakata, poi tenta di corrompere il suo aiutante, un Don Chisciotte con gli occhi a mandorla, al fine di mettere a tacere il precedente misfatto.
È facile riscontrare nel comportamento di Sanders l’atteggiamento tipico della politica estera americana. Essa prima commette il danno e poi cerca di rimediarvi, peggiorando ancora di più la situazione, e mascherandosi dietro un fumoso concetto di esportazione della democrazia.
A Murakami non resta altro che tenersi stretto le sue reminiscenze letterarie, separandole da tutto il resto.
Michel Simion
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