Qualche mese fa su questa rivista è apparso un breve articolo dal titolo Editor: cinque ragioni polemiche per non affidargli un testo, in cui si invitava in maniera ironica a riflettere sull’importante rapporto autore/editor. Dopo aver letto l’articolo, come al solito, sono andato a guardare i commenti che su G0 normalmente sono luogo di confronto civile e addirittura, a volte, stimolante. Non questa volta.
Si è aperto di fronte ai miei occhi un baratro di polemiche senza fine, a volte condite da offese gratuite, con l’aggravante della verbosità (tipica degli scrittori o aspiranti tali che si sono sentiti colpiti da questo breve e innocuo articolo). Cosa è successo? Cosa ha scatenato questa raffica di post rancorosi e risentiti? Quali tasti dolenti sono stati toccati, perché tanti amanti della letteratura hanno trovato intollerabile quest’accenno a una figura professionale dell’industria editoriale?
Ho riflettuto a lungo sulla questione. Rintanato nella mia stanza in cima alla torre del mio castello sito sul colle più alto del mio paese, con lo sguardo liricamente perso nell’orizzonte, sono arrivato a una inconcludente conclusione. Esiste un fraintendimento di fondo con questi amanti focosi della letteratura (forse qualche lettore smaliziato già ha capito dove voglio andare a parare sin dalla lettura del titolo).
Questi lettori/scrittori, giustamente guardano alla letteratura come a una sacra forma d’Arte, e ricordare loro che la letteratura ormai altro non è che un ingranaggio (a volte anche marginale) dell’industria culturale e che il libro è un tipo particolare di merce può essere shockante. Trauma sacrosanto, giustificabilissimo, soprattutto se tutti noi vivessimo all’alba dell’ottocento, epoca in cui l’editoria di consumo iniziò a fare sfacciatamente capolino nel mondo del Bello, nei templi dell’Arte. Molti autori per reagire a queste dinamiche si rifugiarono nella dottrina dell’Arte per l’Arte, uno di questi è il mio amatissimo Gustave Flaubert di cui vi riporto un sacrosantissimo sfogo:
Ma la mediocrità si infiltra dappertutto, anche le pietre diventano bêtes, e le grandi strade sono stupide. – Dovessimo perire per questo […], ma è necessario con tutti i mezzi possibili fare da diga al flusso di merda che ci invade. Slanciamoci nell’ideale! […]. L’industria del brutto ha sviluppato il Brutto in proporzioni gigantesche! Quanta brava gente che, un secolo fa, avrebbe vissuto perfettamente nelle Belle arti, e che ora si fa bastare piccole statuette, piccola musica, piccola letteratura! […]. Siamo tutti dei buffoni e ciarlatani, pose, pose! E ovunque ostentazione! La crinolina ha divorato il culo, il nostro secolo è un secolo di puttane, e ciò che è meno prostituito sono, finora, proprio le prostitute. Non si tratta più di declamare contro il borghese (il quale borghese non è nemmeno più borghese, perché dopo l’invenzione dell’omnibus la borghesia è morta! Sì, si è seduta là sulla panca popolare, e vi resta, del tutto simile ormai alla canaglia, di anima, di aspetto, e anche di vestito! […]). (Flaubert, 1854, lettera a Louise Colet)
In questo periodo, di enormi rivoluzioni tecnologiche e sociali, masse di illetterati radicate nei nuovi sistemi urbani cercano emozioni e svago nelle fiere, nelle grandi esposizioni, nella letteratura, per occupare quella particolare forma di tempo che oggi chiamiamo tempo libero. Si impongono nuove condizioni di mercato e di lettura, si ampliano gli spazi editoriali e di intrattenimento anche grazie alla comparsa dei quotidiani, e assistiamo alla straordinaria fioritura di grandi opere e di autori capaci di incarnare i bisogni della nascente società di massa. Mi limito solo a un nome: Edgar Allan Poe, un autore a cui è possibile far risalire la nascita di molti dei diversi generi narrativi con cui ancora oggi nutriamo il nostro immaginario.
Da questo momento in poi, insomma, la letteratura si fa industria e come tutte le industrie comincia a reggersi sul lavoro specializzato di diverse figure. Come sa bene chi lavora in una casa editrice un libro non è frutto dello sforzo del solo autore, a cosa servirebbe allora un editore, un grafico, un impaginatore, un editor e tutte quelle professioni che concorrono alla nascita del prodotto finito?
Se secondo voi non servono a niente stampatevi da soli i vostri libri e vagate città per città a regalare la vostra arte in attesa che un illuminato mecenate vi prenda sotto la sua ala protettiva e vi paghi solo per il gusto di sentirvi declamare le vostre opere. Se invece come me credete che uno qualunque dei prodotti dell’industria culturale, un film, un fumetto, una serie tv, una pubblicità, una web serie, un romanzo, può essere al tempo stesso una merce e un’opera d’arte, non rinnegate il vostro tempo, rendetevi consapevoli dei meccanismi che governano la nostra complessa società e diventatene protagonisti o spettatori consapevolmente critici.
Per concludere una piccola polemica. Che significa essere scrittori e che significa crisi della scrittura? Sono scrittori solo i romanzieri? Viviamo una crisi del romanzo o della scrittura in genere? Io credo che la scrittura non sia mai entrata in crisi, al massimo è il romanzo che sta diventando incapace di nutrire l’immaginario sociale. La scrittura continua essere alla base di tutti i prodotti dell’industria culturale, un film, una serie, un fumetto, prima di essere trasformati in immagini passano per le fasi scritte del soggetto e della sceneggiatura. Grandissimi scrittori si impegnano costantemente nella creazione di queste opere capaci di tenerci ore e ore incollati davanti a uno schermo.
Quanti di voi amanti focosi della scrittura conoscono i nomi di questi autori e ne riconoscono il duro ed essenziale lavoro?
Lorenzo Di Paola
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