Racconto: Solo il cuore urla nella stanza – Giuseppe D’Abramo
Un gatto. Non ne aveva mai visto uno se non in quei libri illustrati. Completò il disegno trattenendo il respiro. Rimase un attimo a osservarlo. Andava bene.
C’era ancora dello spazio inutilizzato sulle pareti, ma aveva finito i gessetti. Doveva dirlo a Papino insieme a quell’altra cosa e temeva che si sarebbe infuriato. All’inizio pensava di essersela fatta addosso durante la notte, ma poi, sollevando le lenzuola, si era accorta del sangue. Era balzata giù dal letto in preda alla strizza, correndo verso lo specchio. Dopo un attento esame aveva capito dov’era ferita. Dei rivoli rossi le rigavano le cosce. Si era immediatamente tolta la biancheria sporca e l’aveva gettata nel secchio. Prima di entrare in doccia aveva girato la manopola, lasciando scorrere l’acqua finché non era diventata tiepida. Mentre si lavava, prestando una particolare attenzione alla parte coinvolta, spaventosi interrogativi le avevano offuscato la mente.
Passò in rassegna i vecchi disegni e in seguito si mise a fissare l’enorme macchia scura sul materasso. Il vento spingeva i rami bagnati contro i vetri del lucernario. Papino mancava da un pezzo ormai e il suo stomaco borbottava per la fame. Era lui che si occupava del cibo. Le raccontava anche delle storie prima del bacio della buonanotte. «Il mondo è pieno zeppo di insidie» diceva, «di persone malvagie e mostri che rapiscono le belle bambine come te». Ecco perché la teneva chiusa lì dentro. Per proteggere il suo amore, il suo zuccherino. Soltanto una volta aveva tentato la fuga. Mai avvicinarsi alla porta. Era la prima regola e giorni addietro, o forse settimane, l’aveva infranta, beccandosi una scossa tale da farla crollare a terra svenuta. Quel pomeriggio Papino aveva perso davvero la testa. Dopo averla picchiata le aveva sequestrato tutti i pennarelli, i fogli di carta e i gessetti, eccetto un paio che era riuscita a nascondere nelle mutande. «Se ci riprovi ti ammazzo» aveva urlato. Gli erano uscite le vene sul collo, gonfie come serpenti. Da allora aveva fatto la brava, ma adesso c’era quella maledetta questione del sangue, e non sapeva in che modo lui l’avrebbe presa.
Accese la lampada perché cominciava a far buio. Afferrò un peluche qualsiasi e lo strinse forte al petto, avvertendo un leggero fastidio. Le formiche marciavano in processione dirette verso alcuni avanzi di pizza andati a male. Un cane abbaiava in lontananza. Non era affatto sicura di aver capito a che animale appartenesse quel verso, ma credeva fosse proprio di un cane. Si sentiva così sola e annoiata, e allora continuò a ascoltare, pensando a quanto le sarebbe piaciuto giocarci insieme, baciarlo e accarezzarlo, confidargli i suoi più intimi segreti… cose che nemmeno a Papino aveva rivelato. Quella era la terza regola. Niente segreti con Papino. Un brivido le scese lungo la schiena. Forse sarebbe finita all’inferno. Era un posto orribile e caldissimo dove torturavano i bambini cattivi e disobbedienti. I bambini buoni invece volavano in paradiso e vivevano per sempre felici e contenti con gli angeli. Alcune voci maschili piuttosto concitate interruppero il flusso dei suoi pensieri. Per lei fu davvero un accadimento anomalo. Non era stata in grado di intendere le parole esatte, ma solo di percepire un vivo entusiasmo. Luci colorate baluginavano nell’oscurità. L’emozione la paralizzò. A stento riusciva a respirare. Completamente disorientata si portò le mani al cuore. Non urlare. Era la seconda regola.
Giuseppe D’Abramo