Creatura breve di Gabriele Galloni
Pedofilia, necrofilia e blasfemia nella nuova silloge di Gabriele Galloni, Creatura Breve (Ensemble, 2018), che vuole portare il lettore ai limiti della coscienza umana, là dove divino e demoniaco si toccano. Nei suoi versi, endecasillabi e settenari, i morti naufragano negli specchi raccogliendo la luna, angeli pazzi e perversi su sofà newyorkesi giocano il gioco degli angeli, puro e perverso.
Dopo l’esordio con Slittamenti (Augh, 2017) e la fortuna di In che luce cadranno (RPLibri, 2017), la terza silloge conferma il talento e l’innovazione poetica del giovanissimo Galloni che non può essere collocato né tra i sostenitori della sperimentazione a tutti i costi, né tra i poeti dal verseggiare facile, che fanno politica con le tragedie degli altri. Gabriele Galloni ha un suo stile personalissimo che sfida ogni buonismo e moralismo, un’attitudine metafisica che affonda le radici nel sacro e nel sacrilego.
Nelle sue poesie qualcuno vuole provare la dissoluzione della carne, rendersi terra fertile, non essere in grado di raggiungere un altrove, restare vivo senza soluzione e speranza. Le impronte si sbriciolano sulla terra secca, affinché il passaggio sia un invisibile assolutamente altro. C’è l’uomo che colleziona le foto dei suoi amici, delle polaroid in cui li ritrae dormienti, e poi la filosofia dell’acqua che sgorga dalla roccia come un’epifania, “la cosa che ti anticipa ti chiude”.
La luna diviene una corsa di bambini intorno a un pozzo, immagini macabre stillano, come se il pozzo (e non solo il pozzo) li avesse divorati.
L’inquietudine è la salma di una bambina sopra un letto di Tijuana. La creatura breve diventa l’opposto dell’immagine dell’uomo, in fondo non importa il suo presente importa quello che lascia come traccia.
Si parla di santi in questo libro e di folli, come San Cono che si gettò in un forno ardente restando illeso. La Rosa dei Beati è l’insieme di tutti gli oggetti che ci sono stati utili in vita e che portiamo con noi nell’oltretomba, il mondo diventa le cose perdute lungo la strada. Ogni notte fantasmi di bambini spuntano dal mare, diventano buio e tornano all’alba. Abramo scava un pozzo, vi si perde e porta con sé due sillabe cadute dalle nuvole. Narciso è un ragazzino che emerge da una pozza del pavimento, e lo guardiamo tornare dal regno dei morti con un’immagine folgorante.
Scopro Narciso dentro il bagno, emerso
dallo stagno del pavimento in marmo.
È un ragazzino muto. Già si è perso.
Ritratti di comunità in sei giorni
La seconda parte s’intitola Ritratti di comunità in sei giorni, è di una blasfemia che sfiora la sacralità proprio per eccesso, una galleria di ecclesiasti osceni, tra cui Padre Alessandro che trucca i morti e li accompagna mano nella mano, padre Giorgio che amò Greta Garbo e mangiò da ragazzo un vitellino vivo. Padre Giorgio disseppellisce alcuni corpi e per loro recita l’Apocalisse di San Giovanni, Don Alberto è un gesuita che mette in mostra i muscoli davanti ai bambini, Padre Bologna, figlio di un pittore, veste di seta e alla sua morte chiede di esserne avvolto per poi venire sbranato dai cani, Padre Jonathan C. divenne l’amante del Diavolo.
Padre Jonathan C., di Philadelphia.
Scoprì per primo la casa del Diavolo.
La frequentò per un anno. Divenne
l’amante personale del Nemico.Aggressivo, mondano cupo e frivolo
al tempo stesso. Erezione perenne.
Gli sconfitti della terra
La terza parte non ha nome. Si apre con una poesia che ferma l’istante.
Il tin-tin-tin-tinnio della moneta
caduta in terra l’attimo a precedere
lo scoppio. Il corpo asciutto dell’atleta
fa un balzo indietro; un altro sparo. Scivola
cosciente ancora il maratoneta
fra gli sconfitti della terra, rantola,
si aggrappa ai concorrenti che lo superano
pensando un incidente, un contrattempo
di piedi in fallo.
Sangue poco o niente.
Un dolore mite, mai gridato, pervade i versi dell’ultima sezione, dove la terra deve farsi terra e i corpi si spogliano di ogni cosa, si cuciono i tagli e si pulisce il viso, in vista di un grande falò, il sesso del Signore disegnato e sepolto sui muri di casa. Bisogna appuntare tutto e ricordarlo come una fotografia sovraesposta di Dio. C’è il cielo di Siviglia che adesca e ricompone figure filiali e genitoriali, e il Diavolo è un bambino moro violentato. Nelle stanze ci si perde come in un mare, in estate si fa l’amore nelle case vuote, l’intestino dei santi è microscopico ed esposto al pubblico ludibrio e l’occhio di Minerva osserva nascosto nei giardini in cui si compiono sacrifici. Le stagioni cambiano come nei sogni, a seconda dei luoghi, i corpi raccontano la paura e i bambini segnati come martiri compaiono e scompaiono in un’insegna. Le cose belle, come l’estate, vanno via, come svanisce a poco a poco l’infanzia.
Sono poesie d’abbandono e terrore per la perdita dell’innocenza. Sono preghiere.
Il cielo delle strade di Siviglia:
che adesca i pellegrini sotto i portici,che ricompone assieme madre e figlia.
Ilaria Palomba