Sharp Objects e il fascino della favola nera: la miniserie che sbircia nell’infanzia
Vi ricordate di Hänsel e Gretel, i due poveri bambini che vagando per la foresta s’imbattono nella casetta di marzapane? E dell’affabile vecchietta che li sorprende a mangiarne un pezzetto, ve ne siete dimenticati? Non credo proprio. Perché le favole – soprattutto se nere – fanno parte della nostra infanzia e la loro valenza allegorica riesce a conservarle pressoché immutate nella nostra memoria e per sempre. Ai due bambini – ricorderete – venne servita una buona cena, latte e frittelle, mele e noci. Poi vennero preparati due bei lettini e Hänsel e Gretel pensarono di essere in Paradiso.
C’era una volta…
Con Camille Preaker – insolita e autodistruttiva protagonista di Sharp Objects, la nuova miniserie firmata HBO – la musica non cambia poi troppo. Certo, dobbiamo abbandonare i boschi della vecchia Europa per immergerci nella provincia americana e nel suo (analogamente) tenebroso retroterra. Ma anche qui gli orchi e le streghe sembrano sempre in agguato, seppur nascosti dietro ai prati ben tagliati delle loro casette e travestiti da rassicuranti bravi cittadini.
E poi – per l’appunto – c’è lei, Camille Preaker, interpretata da una superlativa Amy Adams. Reporter alcolizzata e autolesionista dal passato travagliato e misterioso che torna nella sua cittadina natale – Wind Gap – per scrivere un articolo su due brutali omicidi avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro. Le vittime non possono che essere due ragazzine del posto. Siamo nella desolata campagna del Missouri. Un’automobile ammaccata percorre instancabilmente l’asfalto di strade assolate, esattamente in cerca – o almeno così sembrerebbe – della casetta di marzapane. Ma non è forse il contrario? È possibile – intendo – fuggire dalla propria infanzia? Cosa si nasconde dietro ai candidi muri e alla sobria eleganza della casetta nella quale Camille Preaker ha consumato la propria infanzia?
Mistero e introspezione
In due parole, ecco la trama di Sharp Objects. O almeno, quello che inizialmente vuole sembrarci. Nel tentativo di farle superare vecchi traumi mai sconfitti, il caporedattore di un giornale di St.Louis decide di inviare una cronista – Camille Preaker – nella propria cittadina natale per seguire un caso di cronaca locale (l’omicidio di due pre-adolescenti). Appena dimessa dall’ospedale psichiatrico per comportamenti autolesivi, Camille viene subito investita dai ricordi, in particolare quelli che la riportano alla misteriosa morte di sua sorella Marian, avvenuta quando erano entrambe poco più che bambine.
Ma a Wind Gap non aleggia soltanto la memoria di Marian e della loro infanzia, bensì vive qualcosa con cui è ancora più difficile confrontarsi, e cioè la madre di Camille. Adora Crellin, esponente di spicco della comunità locale, è una donna compassata e inconsolabile, alla quale la comunità non può chiedere nulla in quanto vittima del lutto peggiore: la morte di una figlia. Apparentemente perfetta in ogni gesto, amorevole e comprensiva, è in realtà una donna priva – forse per il troppo male di vivere – di qualsiasi empatia. In particolare nei confronti di Camille, figlia poco compresa e di conseguenza poco amata.
L’obiettivo di Camille è subito lampante: indagare intorno al crimine quanto basta per struggersi di dolore nei vecchi ricordi d’infanzia, ma soprattutto rompere quella cortina di buone maniere, apparenze e ipocrisie del luogo. E poi, andarsene il prima possibile. Scappare, cioè, un’altra volta. Ma ovviamente le cose non andranno nel verso immaginato e Camille si troverà costretta a fare luce su misteri ancora più intimi e inquietanti.
Il nido d’infanzia
Lo si comprende subito, dunque, che il tema principale della miniserie non è tanto lo sbrogliarsi delle indagini poliziesche quanto il confronto con il proprio passato e con il se stesso bambino, esplorando quell’intoccabile (ed eccessivamente pudico) spazio privato che è il microcosmo del proprio nido d’infanzia. Grazie alla regia impeccabile di Jean-Marc Vallée, poi, la serie riesce in un’impresa preziosa e inaspettata, affidandosi finalmente a figure femminili non convenzionali, ottenendo un risultato originale e inizialmente non scontato. Per questi due elementi Sharp Objects si discosta notevolmente da True Detective, serie dalle atmosfere simili, con la quale si è cercato (troppo) spesso un metro di paragone.
Attraverso un meccanismo narrativo più a flusso di coscienza che a veri e propri flashback, ci addentriamo dunque nell’animo ferito di Camille, che si ritrova – suo malgrado – a dover ripercorrere gli attimi più intensi della propria infanzia ogniqualvolta s’imbatte per assonanza con il proprio passato. Ed è qui che entra in gioco la sua vera antagonista. La vecchietta affabile che invita nella propria casa – luogo per antonomasia ovattato e fuori dal tempo – Hänsel e Gretel, i due bambini innocenti. La strega camuffata da madre amorevole. Il lupo nelle vesti d’agnello. In altre parole, Adora Crellin, perfetta e glaciale madre di Camille, marchiata per sempre dal terribile e inconsolabile lutto di una figlia, interpretata da un’eccezionale e quanto mai inquietante Patricia Clarkson. D’altronde – lo si sa – la famiglia genera mostri.
Madri, streghe e altri archetipi
Senza addentrarci nel pericoloso labirinto degli spoilers involontari, diciamo soltanto che un altro tema cardine di Sharp Objects è quello – quanto mai originale e innovativo – della violenza sulle donne partorita proprio dal microcosmo femminile. Ma qui siamo costretti a fare un passo indietro. Torniamo allora a Camille Preaker, magnifica e malinconica Amy Adams dal corpo tatuato di cicatrici autoprovocate. Ripercorriamo il dramma della sua infanzia – l’inspiegabile morte di una sorella – ma anche le sfumature più intime delle sue più piccole delusioni, le (apparentemente) insignificanti umiliazioni scolastiche, le conseguenze delle logiche del branco che si nutrono in ugual misura della crudeltà dell’adolescenza e della neghittosità della provincia più profonda, le incomprensioni con gli algidi e altezzosi genitori. A ben vedere, ognuno di questi momenti potrebbe far presagire la tragedia. Perché – come tutte le favole – Sharp Objects è violentemente bella.
Wind Gap ci appare dunque come un condensato dell’animo umano, ossessionato dalle apparenze e asfissiato dai segreti, dalle misoginie, dai razzismi. Tutto è faticoso, soffocante. In quasi ogni scena vediamo ventilatori, strade assolate, boscaglie paludose. Ed ecco le allegorie tanto attese: i bambini innocenti, silenziosi testimoni delle crudeltà degli adulti, i genitori orchi che in realtà non sono in grado di proteggerli, il fitto del bosco come luogo degli orrori, il viaggio/ritorno verso se stessi e le proprie paure per superarle e rinascere, ma anche il loro esatto contrario, ed è questo il bello di Sharp Objects.
La casetta di marzapane
Siamo sicuri, infatti, che Camille voglia davvero fuggire da Wind Gap? E i bambini – soprattutto Amma, la terza figlia di Adora – sono davvero così innocenti come sembrano? E poi: cosa nasconde la casetta di marzapane di Camille (la magione coloniale di Adora, abbagliante quanto mai inospitale abitazione dove vengono celebrate persino le feste dell’intera comunità)? Non è in realtà forse ben più spaventosa della lurida casetta da caccia che si trova nel buio del bosco?
Sharp Objects possiede la bellezza delle favole perché il suo modo di raccontare si avvicina alla fiaba. Si nutre di elementi fantastici e ha un forte valore simbolico. La casa di Adora Crellin – per esempio – è come la casetta di marzapane di Hänsel e Gretel, cioè costituisce l’opposto delle case povere e il marzapane appare la materializzazione dei desideri infantili che però al contempo si rivelano una trappola. Esteticamente, poi, la serie è bellissima, curata in ogni minimo particolare e decisamente allusiva. Luci, ombre, inquadrature, recitazione. Tutto appare nettamente sopra la media dei prodotti – seppur ormai di grande qualità – televisivi.
Le favole nere
Peccato solo per l’ultima puntata. Decisamente frettolosa. Insensata. Vittima di pigrizia e mancanza di buone idee. Un’ultima puntata che lascia l’amaro in bocca e rischia di far rivalutare tutti gli altri (splendidi) sette episodi. Ma perché gli autori sono crollati così sul più bello? Perché dilatare il sesto e il settimo episodio per poi riassumere e sbrogliare ogni mistero – sia dell’infanzia di Camille sia della vicenda poliziesca – negli ultimi cinque minuti finali – e non solo, è obbligatorio rimanere incollati allo schermo anche durante i titoli di coda per il colpo di scena finale – per altro, commettendo errori banali e ingenuità senza senso, che non permettono di rendere credibile fino in fondo tutta la storia? Insomma, un vero scivolone finale, non degno di una serie per il resto magnifica.
Come Hänsel e Gretel, Sharp Objects comincia in modo realistico. E anche qui, i bambini sanno di avere un bisogno disperato dei loro genitori e tentano dunque di tornare a casa, anche dopo essere stati abbandonati. E in entrambi i casi abbiamo un brusco risveglio dai sogni di beatitudine infantile, perché “la vecchia aveva soltanto finto di essere così buona…” ci ammoniscono i fratelli Grimm. Però, mentre Hänsel e Gretel termina con i bambini che tornano alla casa dalla quale erano partiti, questa volta ritrovandovi la felicità – e come dice Bruno Bettelheim, “i bambini non si sentiranno più respinti, abbandonati e sperduti nell’oscurità della foresta, né cercheranno la miracolosa casa di marzapane” – non possiamo certo dire la stessa cosa per Camille Preaker. Perché Sharp Objects è una vera favola nera.
Anna Pietroboni