Secondo Alan Sepinwall su Rolling Stone, Reynolds è stato attore limitato, eppure in possesso di un carisma innegabile, quella cosa che al cinema o a teatro non permette al pubblico di staccare gli occhi da un interprete, anche a costo di perdere il filo narrativo.
Tutto cominciò come ha inizio ogni cosa, per caso. Dopo la prematura fine di una carriera nel football americano, si ritrovò a prendere lezioni di inglese al college da un’insegnante che volle a tutti i costi metterlo su un palco. Cosa aveva visto in quell’acerbo ragazzo, metà irlandese e metà cherokee?
Altro incontro importante fu nel 1974 quello con Robert Aldrich, che gli affidò il ruolo di Paul Crewe in Quella sporca ultima meta. Nel celebre film tutto comincia con una donna, ricca, bella, con cui sperimentare il fallimento di una meta dopo una lunga rincorsa, tra trofei impolverati e una poltrona davanti alla TV. Non resta che rubare la sua Citroën SM e affrontare il primo sbirro che capita. Con che utile? Quello di farsi confinare in un penitenziario di stato dove essere “uomo” tra uomini, lontano dallo scacco del “rapporto sessuale”.
Quegli uomini lì dentro non hanno mai avuto niente e non perdonano a Crewe di avere avuto tutto, prima di buttarsi via per una disonorevole questione di scommesse. Chiunque di quei galeotti avrebbe fatto lo stesso, ma a partire dalla posizione di outsider. Tutti infatti si domandano: ma è vero che malgrado la fortuna, Crewe ha tradito i suoi compagni di squadra per soldi?
L’incontro con Sam Fuller, il regista che secondo Martin Scorsese fece dell’economia di esercizio una vera e propria personalissima cifra estetica, avviene sul set di Quattro bastardi per un posto all’inferno (1967). Interpreta Caine, un contrabbandiere di armi in Sudan. È solo, senza una compagna, sempre sull’orlo della rovina per rovesci della fortuna. Si lascia sedurre da una donna avida solo per strappargli il segreto di un carico d’oro sommerso.
Se Aldrich deve far conquistare a Reynolds una famiglia di galeotti, Fuller fa desiderare al suo personaggio un figlio attraverso l‘adozione di Cicca, un petit vilain che fuma il sigaro. È Caine ad assaporare per primo un’idea di paternità? Nient’affatto, è quel piccolo delinquente che lo vuole come padre. Ha bisogno di qualcuno che gli insegni a essere uomo il più presto possibile. Prima lezione: mai rubare a un ladro.
Un padre e un figlio “bastardi”, possono essere soci? Probabilmente no, ma Reynolds/Caine sa che se tutto va come deve, se ne andrà via da solo, e ricco. Quando si troverà ad aver perso tutto, senza più oro, né barca, né documenti, solo allora sarà disposto ad aprire le braccia a un figlio che dovunque vada sarà la sua ombra. Era questo il tesoro che cercava?
In La fine della fine (The end) Reynolds è Sonny, un inguaribile nevrotico che veste sempre una tutta da ginnastica, come se fosse appena uscito dal film di Aldrich. È in cerca di riconoscimento da tutte le donne che incontra, tanto da tradirle ogniqualvolta la routine subentra alla furia dell’eros. Di fronte alla notizia di una malattia mortale, si sente in trappola; non può più fuggire. Cerca consolazione dall’amico, dall’ex moglie, dall’amante, perfino da un giovane prete che nella confessione si eccita all’ascolto degli innumerevoli peccati d’adulterio.
Il ruolo dell’uomo che esibisce la sua mascolinità, nasconde il bambino con muscoli e baffi a cui l’adulto cerca nevroticamente di ancorarsi, per non soffrire i lacci di una maturità mortificante. Se Reynolds per Aldrich è il bambino inadatto a sostenere la verità di una donna, se per Fuller è il bambino “padre” di un altro bambino, in La fine della fine è il bambino in tuta che di fronte alla verità ultima della morte cerca di regredire a uno stato neonatale e incosciente, tale da permettergli l’ultima fuga in quella “medicina dei codardi” che è il suicidio.
In La fine della fine tutto poggia su Sonny che alla luce della malattia osserva pensoso i vecchi genitori. Suo padre è sordo, ripetitivo come un disco rotto; passa il tempo a colorare sagome di fiori. Sua madre guarda la TV, annegando senza fare una piega nella compagnia a un marito che si sta spegnendo. Ecco la verità da cui fuggire e che la morte imminente rimette a vista come con un bambino che non si rassegna a fare i compiti. Malgrado tutto, accetterà di arrivare “vivo” alla morte per amore di sua figlia.
È stato seduttore seriale, con una vita sentimentale burrascosa. Ha sperperato talento, ingegno e ricchezza. Nel suo momento migliore ha rifiutato ruoli importanti, di cui in seguito si pentì («Accettavo le parti più divertenti – disse – non quelle più impegnative»). Ora che Reynolds non c’è più, è più che mai vivo il suo cinema, capace di strappare un sorriso lì dove un uomo cerca di dissimulare la sua umana fragilità, mostrandosi all’altezza di tutto eccetto di sé stesso e della donna da cui è amato. Una vita senza errori non può esser tagliata per l’arte, per questo amiamo in Reynolds il bambino, il mascalzone e l’artista.
Vincenzo Carboni
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