Che cos’è l’apocalisse?
Il termine deriva dal greco e indica, letteralmente, un gettare via qualcosa di coperto, un disvelamento. Come concetto ha origine antichissime, entrando nella cultura occidentale attraverso il controverso ultimo libro del Nuovo Testamento.
Nel corso della storia si è usato e abusato di tale termine: a ogni catastrofe, naturale o artificiale, si fantasticava di un’ improbabile fine apocalittica del mondo, lasciandosi andare ai sentimenti più conturbanti e cupi. Negli ultimi tempi l’uomo ha perso la sua innocenza, relegando l’apocalisse nel cassetto dei ciarlatani e dei superstiziosi, come si può facilmente evincere dall’evento più recente in tal senso, ossia la fine del mondo predetta dalla popolazione Maya nel 2012.
Eppure il fascino per l’apocalisse resta: le paure ancestrali dell’essere umano hanno semplicemente cambiato percorso, spostandosi principalmente dalla sfera religiosa/artistica a quella letteraria/cinematografica.
Gli esempi in tale direzione si sprecano: dall’apocalisse vampiresca di Matheson, in “Io sono leggenda“, a quella zombie di George Romero, nel “La notte dei morti viventi“, (e a tutto il filone zombie, sfinito ma non ancora deceduto) fino ai giorni nostri, con apocalissi sociali/ambientali come quella Cormac Mc McCarthy in “La strada“.
Chiunque, prima o dopo, si è imbattuto in qualche apocalisse. E cosa ci viene in mente di primo acchito? Lande desolate, degne di T.S. Eliot, autostrade distrutte e divelte, negozi sventrati nonché sterminate distese di cadaveri abbandonati
Enormi spazi aperti, dunque.
Ogni regola ha la sua eccezione: esistono casi di apocalissi claustrofobiche in cui l’evento nefasto è concentrato in pochi metri quadrati, in un luogo chiuso, dal quale è impossibile sfuggire. Là fuori il mondo è inesistente, non si ode nemmeno un vagito.
All’interno, invece, si scatena l’inferno.
Ballard è un attento osservatore, fino alla morbosità, del lato oscuro dell’essere umano.
In questo romanzo mette in scena un dramma verticale: se fosse una pièce teatrale sarebbe un’unica grande scena.
Siamo fuori Londra, in una zona in cui sorgono condomini come funghi. Sono autosufficienti: hanno palestre, scuole, banche, ristoranti. Le persone non hanno necessità di uscire all’esterno ma ognuno di loro lo fa: bisogna guadagnarsi da vivere in un mondo normale dove la moneta è il normale, e principale, mezzo di sussistenza.
La normalità, appunto. Essa diventerà qualcosa di claudicante e incerta quando salterà la corrente elettrica, bloccando alcuni inquilini in ascensore. Si scatenerà, quindi, un climax di violenze che sfocerà in una vera e propria battaglia sociale.
Ma quali sono gli assi portanti di questa cupa apocalisse? Il lato sociale e quello ambientale.
Il condominio è una piramide, al cui vertice vi è l’aristocratico costruttore e alla cui base un umile fotoreporter. Nel corso dei capitoli quest’ultimo salirà tutto l’edificio, a forza di omicidi e stupri, fino ad arrivare al faccia a faccia con il creatore. Chi è l’architetto se non un angelo decaduto che ha costruito per l’uomo la sua prigione definitiva?
D’altra parte è evidente la forte critica ballardiana all’ansia compulsiva della sua società, che noi abbiamo esacerbato: costruire, costruire, costruire. La sua profezia risulta essere profondamente inquietante, per la sua pregnante realtà che possiamo toccare con mano: quanti palazzoni simili al Condominio abbiamo ogni giorno davanti agli occhi?
Basterà una semplice interruzione di corrente a scatenare l’apocalisse? Pare di no. Per ora.
Snowpiercer è un film del 2013, tratta da un fumetto. Qui il suo autore, il regista coreano Bong Joon-ho, si occupa dell’apocalisse già avvenuta, saltandone l’eziologia.
L’intreccio ruota tutto attorno a un treno, che a sua volta ruota attorno alla Terra, in un moto perpetuo. Lì, nei lunghi vagoni, vive stipata l’umanità sopravvissuta a un’enorme glaciazione. Nei vagoni di coda ci sono i superstiti più poveri, i quali vivono in pessimi condizioni igieniche e alimentari (la scoperta del loro nutrimento sarà sconvolgente, sia per i personaggi che per il telespettatore). Gradualmente, le condizioni di vita migliorano, fino ad arrivare al lusso più sfrenato dei vagoni di testa, in cui domina il costruttore del treno.
Anche qui il protagonista tenterà la scalata, questa volta orizzontale, per risolvere la situazione una volta per tutta.
Basterebbe questa semplice descrizione per cogliere le grandi similitudini tra l’opera di Ballard e quella di Joon-ho: disastro ambientale, scala sociale, ascesa.
Ciò che inquieta maggiormente, però, è questa visione claustrofobica dell’apocalisse, come se l’uomo regredisse in modo tale da perdere la sua umanità, concetto molto vicino a quello di libertà. Proprio qui sta il punto: il disastro ambientale è conseguenza dell’opera dell’uomo, che ha provocato la natura fino a scatenarla. Per un amaro contrappasso, la natura ha chiuso l’uomo in gabbia, così come questi fa con l’animale, sublimando la sua supremazia.
Non resta che andare a rispolverare le “Operette Morali” di Leopardi dal viale dei ricordi, soffermandosi sul “Dialogo tra la Natura e l’Islandese.” Che Ballard e Jong-ho abbiano preso appunti?
Michel Simion
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