Tutti cadiamo, e finiamo a terra da qualche parte.
Con queste parole si apre Spin, il capolavoro di Robert C. Wilson, vincitore del Premio Hugo nel 2006 e pubblicato in Italia per la prima volta da Rocard.
La caduta è in questo senso metaforica, e abbraccia tutto il romanzo, ne è il fulcro portante. Ma ciò che ancora è più centrale è la domanda: perché cadiamo?
In questo romanzo – fra la migliore fantascienza uscita nel nuovo millennio – Wilson ci pone davanti a una situazione ben precisa: a un certo punto, sotto gli occhi dei bambini protagonisti e del mondo, le stelle scompaiono.
Avevo dodici anni e i gemelli tredici la notte in cui le stelle scomparvero dal cielo.
[p.9]
Ed è così che comincia tutto.
Dire che le stelle scompaiono può significare qualsiasi cosa. Può riguardare le stelle in sé o la nostra capacità di osservarle. Ed è in quella notte in cui svaniscono che comincia il primo motivo d’angoscia: l’attesa dell’alba. Anche il sole è – naturalmente – una stella. Una notte che potrebbe essere l’ultima.
Non dobbiamo attendere molto prima che ci si renda conto di quel che è successo. Una sorta di membrana – un guscio di noce – ha avvolto la terra. L’ha fatto senza che nessuno potesse accorgersene, d’improvviso, senza ragione.
È una membrana che sembra lasciar passare la luce del sole e addirittura permette il transito di sonde. Ma è lì, e le stelle sono scomparse dal cielo.
Questa membrana viene chiamata Spin.
È da questo presupposto che parte la domanda. L’umanità comincia a cadere. E Spin ci parla proprio di questo, del modo in cui cadiamo, del perché cadiamo. Ci parla di come l’umanità affronti i cambiamenti repentini, cambiamenti sui quali non ha alcun controllo né possibilità istantanea di porre rimedio.
La membrana è lì, non c’è niente da fare. E la morte può arrivare all’improvviso, la vita cambia in un modo che non è possibile prevedere.
Se cadiamo, come ci ricorda l’incipit del libro, atterreremo anche da qualche parte. E questo può fare la differenza: il modo in cui cadiamo, in cui atterriamo, in cui – magari – ci rimettiamo in piedi.
La vicenda si svolge diversi decenni dopo, quando i protagonisti sono ormai adulti. E questo primo gap temporale è importante, poiché ci permette di vedere in che modo l’umanità ha reagito. Un primo sguardo è per l’arricchimento del signor Lawton, padre di Jason, uno dei protagonisti, che ha sfruttato la comparsa dello Spin – e quindi la perdita di migliaia di satelliti, il web, il gps, tutto andato – per creare dei palloni aerostatici che ne facessero le veci. Ma quella di Lawton è una situazione rara.
Suo figlio, Jason, è ossessionato dallo Spin e vuole comprendere cosa ci sia dietro, chi o cosa abbia posizionato lo Spin e perché.
Sono entità grigie, questi creatori fantomatici, poiché nessuno li ha mai visti o ne ha mai sentito parlare. Nessuna richiesta di riscatto è arrivata, nessuna comunicazione. Per questo sono noti come gli Ipotetici. Non è chiaro – insomma – nemmeno se esistano.
E maggiore è lo sgomento quando si scopre l’effetto che questa membrana ha sulla Terra: ne rallenta terribilmente lo scorrere del tempo. Ogni anno sul pianeta, all’interno dello Spin, corrisponde a oltre centinaia di milioni di anni all’esterno.
Come si affronta tutto ciò? Il progetto che Jason sviluppa è forse un classico della fantascienza della golden age: terraformare Marte. Se le sonde possono uscire – se le persone possono uscire – dallo Spin, allora è possibile terraformare Marte e avviare una colonia di riproduttori.
E siamo ancora davanti al come gli uomini reagiscono alla caduta. La terraformazione è al contempo l’idea di una fuga e di un piano B. Ma – se ragioniamo in termini di anni passati nell’universo rispetto alla Terra – è anche la creazione di un possibile alleato gemello. Una possibilità per lottare contro… cosa? Gli Ipotetici?
In questo marasma di detto e non detto, di ipotesi e teorie, si muove la fantascienza di Wilson. Ma è una fantascienza umana, che pone al centro l’interiorità di una specie messa a dura prova. Non c’è quella terminologia ostica di alcuni romanzi hard sci-fi che potrebbe allontanare i lettori meno avvezzi. La narrativa di genere è – ce lo insegnano i capisaldi – uno specchio distorto sulla nostra società, e Spin non è da meno. Imbastisce una storia colossale e muove l’umanità intera, ma alla fine la domanda, quella che ci siamo posti all’inizio, è sempre fra le parole che lampeggia, che ci riscuote.
Perché cadiamo, allora? Perché siamo umani. E Spin, attraverso una storia che ci parla di noi stessi, non fa altro che ricordarcelo.
Maurizio Vicedomini
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