Charles Aznavour è morto il primo ottobre 2018. Qualcosa di noi muore con lui? Probabilmente sì, ma la sensazione è che sia morto qualcosa che appartiene al passato, se
Non ci sarà da stupirsi se dentro la custodia di quel 33 giri saranno trovate vecchie lettere d’amore, scritte su carta ingiallita, con una grafia tremante, incerta se svelarsi completamente o se dissimulare. L’impronta di un bacio fatta col rossetto rivelerà la firma di nostra madre; un “per sempre mia” suggellerà la corrispondenza di sensi da parte di papà.
Appena inurbati, negli anni Sessanta gli amanti si sono aggrappati alle canzoni di Aznavour per trovare tradotti stati d’animo e sensazioni che la nascente alfabetizzazione di massa prometteva di mettere in parola. L’attimo dopo l’amore (Après l’amour, 1970) è persuadersi della legittimità di tanta stupefatta felicità, di tanto mistero, ascoltando “lunghi silenzi”, avvertendo “dita leggere” sulla pelle, affondati nella meraviglia di sentirsi un solo corpo con quello dell’amata.
Se sulle ceneri del dopoguerra l’Europa si preparava ad aver di nuovo fiducia nella Storia come orizzonte progressivo di felicità, Aznavour ha saputo intercettare l’amore come fattore storico di un futuro migliore, da compiersi in una ben candida felicità da comodino. L’amore è stato per molti l’occasione di avere finalmente qualcosa di proprio (una famiglia, dei figli, un ruolo sociale rispettabile), dopo tanto tempo in cui ci si doveva accontentare di niente. Ma dopo il matrimonio, l’amore sarebbe bastato a esser felici?
Senza Rete è stato un un popolare format TV tra il 1968 e il 1975, in onda dall’Auditorium Rai di Napoli per la regia, tra gli altri, di Enzo Trapani. I testi erano di Giorgio Calabrese, indimenticato paroliere, nonché traduttore per l’Italia dello chansonnier franco-armeno. La novità dello show
Aznavour bucò lo schermo con la sua voce triste, ma sopratutto con una meditata disillusione, sostenuta da una capacità interpretativa fuori dal comune. L’amore è come un giorno (L’amour c’est comme un jour, 1963) di fatto è la resa all’evidenza che – malgrado la promessa – l’amore finisce, sacrificato da un corpo che non si vuole spogliare della sua pulsionalità perversa e polimorfa, incapace di farsi tabernacolo di un sentimento assoluto.
Per Aznavour tuttavia perdono e ironia salvano l’uomo e la donna dal fallimento inevitabile del loro rapporto. In Ti lasci andare (Tu t’laisses aller, 1970) una coppia è all’ennesima discussione. Lui è stufo di essere continuamente demolito nel proprio orgoglio; lei lascia mortificare la propria femminilità, preferendo per vendetta degradarsi a oggetto squalificato di ciò che un tempo fu degno di adorazione. Se a dimagrire basta un po’ di sport, ad amare serve una sorta di “disciplina” della memoria, di un tempo che ci faceva certi di fede l’uno nell’altro. L’amore è una palestra che ci allena a una mortificante – ma anche “costruttiva” – spoliazione di sé.
In quel Canale Nazionale RAI, Aznavour riuscì a condensare in pochi minuti un mix malinconico tra canzone e grandissimo teatro, tra il patrimonio dei grandi chansonnier francesi (Charles Trenet, Georges Brassens, Léo Ferré, Jacques Brel, Gilbert Bécaud, Edith Piaf, Yves Montand, Juliette Gréco) e quello di drammaturghi come Jean Anouilh e Jean Paul Sartre. L’interpretazione in bianco e nero, con la grande orchestra di Pino Calvi alle sue spalle, fece entrare quel pubblico popolare dentro l’allentamento del proprio legame d’amore, fornendo allo stesso tempo non una via di fuga, ma una via per rimanere.
Tuttavia è con Devi sapere (Il faut savoir, 1963), che Aznavour procede al fondamento della sua poetica. Parafrasando uno scrittore caro al cantante armeno (Louis-Ferdinand Céline), l’ideale dell’amore ci lascia molto prima di andarcene per davvero. In questo deserto che fa seguito alla disillusione, il sapere che rimane è tutto nella perdita. Non resta che dissimulare sorrisi, proprio quando l’angoscia si fa più fitta. Si è colti nel lasciar la tavola della vita, ma
Ognuno incontra nell’amato la traccia del proprio esilio, quell’esile filo che sta tra l’offrirsi e il sottrarsi, capace di generare in amore una dissimmetria persistente. Perduto il miraggio da fotoromanzo, il soggetto si misura col “niente” di cui l’amore è sostanza. Forse è per questo che i ragazzi negli anni Settanta non amavano Aznavour, troppo identificato con il sogno borghese dei propri genitori, ma oggi – a risentire le sue canzoni – c’è da credere che il vero “ribelle” sia stato proprio lui. Forse è più onorevole restare che fuggire. Qual’è allora il sapere che serve in amore? Rispondere è vano. Il faut savoir, mais moi, je ne sais pas…
Vincenzo Carboni
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