Il signor Bobby Bennet conosceva bene due cose: il soffitto della sua cella, screziato di macchie color ruggine, molto simile a un cielo d’inferno e la paura. Paura di andare all’inferno presto, per rendersi conto che quel cielo sarebbe stato in qualche modo diverso.
Non c’era nulla che non andava quel giorno nel mondo fuori, ma dentro quella lurida cella il signor Bobby Bennet, si domandava se l’uragano che si portava dentro avesse ucciso una quantità considerevole di farfalle nel lato opposto del mondo, così tante da poter in qualche modo riscattare la sua rabbia. Le immaginò volare sul soffitto e scontrarsi sulla lampadina che penzolava da quel filo di rame, spesso due dita, che aveva scatenato in lui vari quesiti: il numero di giri che avrebbe potuto fare attorno al suo collo, la resistenza dello stesso e se gli avesse permesso o meno di ricevere una morte più dignitosa di quella che lo attendeva una volta percorso il vialetto lercio e pieno di macchie di urina che portava alla morte. Contò le farfalle, contò frammenti di vetro immaginari cascare al suolo e mentre sfilava la coperta di lana dalle sue gambe, contò tutti i brandelli di pelle, i granelli di polvere, peli fluttuanti, particelle di luce, il numero dei passi, prima in lontananza, poi vicinissimi dell’individuo che avrebbe di lì a poco aperto la porta della sua cella, di cui conosceva il volto ma non il nome.
Cercò di dare un peso specifico alla sua paura: la figurò come una pinza da chirurgo che con una pressione di dieci atmosfere gli fasciava le coronarie, in modo da far fluire tutto il sangue in un solo punto del petto fino a causargli la pulsione necessaria di quell’incessabile e doloroso infarto senza fine. Passò oltre: sessanta watt di una scarica elettrica attorno le meningi, quaranta chilogrammi di gelatina al posto delle ossa, ma la sua paura alla fine si ridusse a trecentoventi millilitri di urina, che colò tra i pantaloni una volta che la porta si aprì del tutto e quell’uomo senza nome lo fissò dritto negli occhi.
«Robert Bennet» disse soltanto. E Bobby sentì il peso delle manette sui polsi, la lingua fredda e rigida, le sue carni puzzare e divenire marce. Iniziò un conto alla rovescia involontario, che partiva con la fusione di tutti i pensieri più angoscianti e che aveva come unica meta il vuoto. Ma il vuoto non ha occhi che ti fissano, non è alto e non ti chiama per nome.
Bobby ebbe la strana sensazione di cadere all’indietro e accasciarsi da qualche parte, dentro un cantuccio, come se improvvisamente il suo corpo fosse fatto di mogano, liscio al tatto e tirato a specchio – molto simile alla bara di sé stesso – e capì di essere morto quando il tizio senza nome lo chiamò di nuovo aggiungendo:
«È ora di fare l’ultimo bel giro, Robert».
L’ultimo bel giro. Quella frase era da rificcare in bocca, un equivoco, una cosa soppesata male. L’ultimo bel giro, quello vero, Bobby lo aveva fatto nell’81, a bordo della sua auto, diretto a Est. Era estate e gli incubi erano tutti ancora chiusi dentro al bagagliaio. Guardò il cielo dallo specchietto retrovisore: terso e azzurro, puntinato da un mucchietto di rapaci lontanissimi. A quell’epoca aveva ventisei anni e la nostalgia esisteva in lui come una valutazione positiva tra quello che aveva avuto di bello nella vita e i chilometri di strada da percorrere. Con la promessa che non si sarebbe mai voltato indietro, Robert, fuggiva via da qualcosa di bello e tranquillo per scontrarsi con un destino ignoto. Lasciava dietro di sé un appartamentino di pochi metri, tre anni di alcolismo e notti insonni e qualche storia d’amore andata a male. Nulla per cui valeva la pena restare. Partiva per inseguire un sogno.
La route 66 era un ofide disteso al sole: l’asfalto pettinato dalle ruote, montagne avide di pioggia e strisce gialle che tagliavano in due la strada come una serie infinita di puntini sospensivi. Sorrideva Robert. Sorrideva perché sperava che il senso univoco di quella marcia lo avrebbe portato nella direzione giusta.
Superò una tavola calda, di quelle rustiche e con le pale al soffitto. L’insegna di legno curvata dal sole, riportava in verticale la scritta: “caffè Colorado”.
Accanto alla scritta, l’immagine di una pin up sorridente indicava con l’indice teso la porta del locale.
Robert chiuse gli occhi un paio di secondi e quando li riaprì vide un volatile di dimensioni titaniche scontarsi sul parabrezza della sua auto. Sentì un grosso tonfo, le lamiere dell’auto si piegarono, le dita premettero contro lo sterzo e mentre i piedi schiacciavano sul freno, il suo cuore accelerò di colpo provocandogli un forte capogiro. Un grosso quantitativo di polvere coprì parte del cielo e della strada. Dalla nube, proprio accanto all’insegna sbiadita, vide una figura correre verso di lui.
Era una ragazza. Una ragazza, vestita di giallo che mormorava qualcosa. Robert si concentrò sulle labbra sottili e rosse che in un istante divennero una gigantografia di Andy Wharol parlante disegnata nella sua mente.
«Tutto ok?» gli chiese. Ma lui non rispose, come pietrificato «sei di queste parti?» aggiunse.
Robert pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa, qualsiasi cosa. «Sono diretto a Est» riuscì infine a dire, pulendosi le mani sporche sui pantaloni.
«Va tutto bene?» disse la ragazza.
«Tu? Vivi qui tra le sterpaglie?».
Lei sorrise e Robert guardò per la prima volta le sue mani. Reggeva un’enorme tazza di caffè, di quelle in gommapiuma e rivestite di flanella. Le mani della ragazza si sollevarono e Robert poté vedere bene le sue braccia. Erano scure solo per i tre quarti inferiori, mentre dal braccio fino alle spalle assumevano una gradazione chiarissima.
«Sono la ragazza caffè» disse lei, poggiando quell’enorme tazza sulla sua testa e scoppiando a ridere.
«Non ha senso!» rispose lui «qui si ferma solo chi vuol fermarsi, il tuo è un tipo di marketing che ha perso in partenza, chi vuoi che si fermi sulla Route 66 per un caffè alle undici del mattino? Se ha fretta le probabilità che si fermi per una sosta a quest’ora sono solo del 7%».
«Sono già le undici?» rispose lei, sfilando l’enorme tazza e alcune ciocche di capelli rimaste intrappolate all’interno.
«Già» disse Robert.
«Saranno anche le undici, ma tu ti sei fermato».
«Mi sono fermato perché ho investito un grosso volatile, non so cos’era…».
«Allora la mia strategia di marketing funziona!».
«Non credo. Non sto bevendo caffè, come puoi vedere…».
«Non ti va proprio un caffè? Caldo, amaro, con una spolveratina di cacao…» canzonò lei, come il personaggio di uno spot pubblicitario.
Robert abbassò gli occhi e si soffermò sulle sue scarpe. Sollevò lo sguardo passando sui fianchi abbondanti della ragazza, sul seno scarso e sul suo collo, una mescolanza di pelle abbronzata e polvere, sollevata dalle ruote di tutte le auto che non si erano fermate.
«Mi va un caffè» disse. Più per pietà che per desiderio e quando lei sorrise di nuovo, si sentì felice come uno stupido ragazzo che aveva ceduto stupidamente a una stupida strategia di marketing.
Quel caffè durò otto ore, trasformandosi in un toast e due bicchieri di gassosa, caramelle gommose direttamente dalla busta e più di ventimila parole.
La ragazza dal vestito giallo era un insieme di sogni e motivazioni, di quelli che ti chiudono in un cassetto con la chiave all’interno. Robert le raccontò quasi tutta la sua vita: le disse della sua passione per la matematica, omettendo le cose che vanno omesse e rafforzando tutte quelle in grado di bersagliare l’interesse di quella ragazza.
Lo fece in maniera perlopiù onesta perché sentiva che dall’altro lato era lo stesso e perché avrebbe dovuto di lì a poco lasciarla andare. Quando lei sorrise per l’ultima volta sull’uscio della tavola calda, lui si sentì catapultato in un universo di crisalidi senza destino.
«È ora Bobby» parlò l’uomo senza nome. Robert pensò che in qualche modo aveva trovato un ultimo pensiero felice e che avrebbe fatto di tutto per portarselo all’inferno.
«Puoi anche non prendere le tue pillole, Bobby. Per oggi va bene così» disse la guardia, avvicinandosi per ammanettarlo.
«Non merito la morte… non ho fatto niente» sussurrò Robert, ma la sentinella parve non ascoltarlo.
I suoi piedi iniziarono a strisciare nel corridoio e i suoi fluidi corporei si unirono a quelli di tutti gli altri, testimoniando il passaggio di storie diverse ma con finali identici.
Tenendo il morale basso, Bobby scrutò il corridoio per qualche istante. Era buio, illuminato solo da una fila di lampadine che spartivano le celle a destra e a sinistra. I prigionieri se ne stavano seduti sulle loro brandine, a occhi chiusi. Qualcuno, illuso che Dio in qualche modo tendeva ancora l’orecchio in quel braccio della morte, mormorava una preghiera sommessa che qualcun altro ripeteva in maniera sincronizzata dal lato opposto del corridoio. A Bobby, che non aveva mai creduto in niente, gli si drizzarono i peli sulle braccia e sentì una ventata di aria compressa invadergli le viscere. La guardia dovette spingerlo più volte e un’altra sentinella, giunse dal lato opposto poiché Bennett sembrava accorciarsi in altezza a ogni passo. Dovettero infine sostenerlo, quasi trascinarlo. Un alone giallognolo proveniva dalla cancellata di fronte e disegnava i contorni delle persone presenti nella stanza della morte. La sentinella fece scricchiolare tre volte le chiavi nella toppa e consegnò Bobby a un’altra guardia senza nome. In quell’istante Robert incrociò il suo sguardo cercando un velo di compassione. La freddezza con cui quell’individuo lo ricambiò non fu nulla paragonato al disprezzo che lesse negli occhi di coloro che popolavano la stanza.
«ASSASSINO!» urlò uno di loro. Robert diede uno sguardo rapido al suo viso e riuscì solo a cogliere l’enorme somiglianza con un chitarrista scozzese conosciuto in gioventù, di cui non ricordava il nome. Ci fu un breve silenzio, interrotto dallo scricchiolio delle sedie e da alcuni rantoli bassi in sottofondo. Il pianto feroce di una donna, inghiottì tutti i suoni circostanti. In quel momento lo sterno di Bobby si tramutò in un rubinetto rotto che inondò il pavimento di lacrime. Le mani gli tremavano e le serrò a pugno. La sentinella gli tolse le manette e lui sollevò gli occhi, compunto.
È fatta – pensò – sto per morire.
«Robert Bennett, ora verrà passata l’elettricità nel tuo corpo, secondo le leggi di questo stato».
Robert chiuse gli occhi e quando lo fece gli sembrò di aver vissuto quella scena un milione di volte: le mani che lo toccavano per allacciarlo alla sedia elettrica erano sempre le stesse, i gesti uguali. Robert aprì gli occhi e vide una cosa che lo disintegrò. Una ragazza assisteva alla scena pietrificata: le dita annodate nella gonna, attorcigliate fino a diventare viola. La riconobbe, come si può distinguere la faccia dell’amore tra altre mille facce prive di un senso. La ricordò sul ciglio della Route 66, con un abito giallo e un’enorme tazza di flanella tra le braccia abbronzate per tre quarti. La guardò meglio, vergognandosi come non aveva mai fatto prima di allora. La donna sembrava a tratti diversa. Più magra, pallida, acerba. Erano passati circa dieci anni da quel bel giro e la cosa gli parve impossibile. Per un attimo, si aggrappò a quella certezza sentendosi proiettato in un sogno e sperò di svegliarsi da un momento all’altro nel suo letto, di aprire gli occhi e di stemperare quell’umiliante incubo con un’abbondante colazione.
«Robert Bennett, accusato della morte di Miriam Katerina Dowell, colpevole di aver guidato in stato di ebrezza, provocando un incidente mortale con occultamento di cadavere».
«Mia madre era ancora viva!» urlò quella giovane ragazza dal pubblico «era viva» gemette.
Bobby si sentì confuso, come svuotato di ogni sua molecola. Non l’aveva uccisa lui.
«Oggi, 17 Marzo 1989, lo stato del Missouri ti condanna alla pena di morte».
Fu tutto velocissimo. La sentinella bagnò uno straccio nel catino e lo posizionò sulla testa di Robert. La sensazione dell’acqua ghiacciata gettò il sogno tra le braccia della morte che ingoiò fulminea l’anima di Robert Bennett. Un formicolio gli invase prima le mani, poi i piedi e tutto il resto del corpo. Si sentì bollente e gli sembrò di essere sparato comodo, assieme a quella sedia, tra milioni di soli allineati tra loro.
Il signor Bobby Bennet conosceva bene due cose: il soffitto della sua cella, screziato di macchie color ruggine, molto simile a un cielo d’inferno e la paura. Paura di andare all’inferno presto, per rendersi conto che quel cielo sarebbe stato in qualche modo diverso.
Stefania Serrapica
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