Quando se ne vanno artisti come Ermanno Olmi, Pier Paolo Pasolini, Bernardo Bertolucci, diventiamo tutti un po’ più poveri. L’ha detto Stefania Sandrelli alla commemorazione per la scomparsa dell’ultimo dei tre cineasti citati, andatosene una settimana fa a 77 anni e con mezzo secolo di carriera alle spalle e diciassette opere di cui ha firmato la regia. Ma che cosa significa, precisamente, che diventiamo tutti più poveri?
Non è la morte dell’uomo, ma la fine di un’età del cinema. Un’età che era già finita prima di lui: l’ultimo film di Bertolucci è del 2012, e con ogni probabilità non ne avrebbe fatto mai più un altro – o almeno, un altro in grado di lasciare un segno. Un’età in cui l’eredità dei maestri del neorealismo e delle nouvelle vagues era ancora sensibile, e in cui provare a reinventarsi il cinema, trovare strade alternative alla struttura tradizionale del racconto per immagini era doveroso. Un’età in cui si faceva cinema perché si aveva qualcosa da dire, e si era autori in quanto non si smetteva mai di comunicare, fino alla fine.
Bernardo Bertolucci era un autore, se per autore intendiamo un cineasta con un nucleo di temi narrativi che affiorano in tutta la sua produzione, il più pressante dei quali va rintracciato senz’altro nel confronto coi padri – tema, questo, che passa attraverso due canali di significato: da una parte, i padri biologici, il genitore maschio colpevole d’inadeguatezza paterna e d’assenza prolungata presente lungo tutta la filmografia bertolucciana con tratti invariati. In Strategia del ragno (1970) Athos Magnani ritorna nella (immaginaria) città in cui il padre, un eroe della Resistenza, ha vissuto ed è stato assassinato, per scoprire il mistero che avvolge le cause della sua morte. È curioso che questo padre si chiami come lui e sia esattamente identico a lui, con lo stesso attore chiamato a interpretare entrambi i ruoli: un segno, probabilmente, che siamo ciò che i nostri padri sono stati prima di noi e diventeremo come loro sono adesso. È quel che succede, per esempio, all’imprenditore Primo Spaggiari e a suo figlio Giovanni – al secolo rispettivamente Ugo e Ricky Tognazzi – con quest’ultimo rapito da terroristi comunisti e incapace di perdonare l’altro di essere un “industrialotto cafone”; eppure, Primo ricorda di essere stato partigiano e si stupisce di non ricordare più i volti e l’odore degli operai che lavorano nel suo caseificio. Non è un caso che avrà da dire:
«I figli che ci circondano sono dei mostri. Più pallidi di come eravamo noi. Hanno occhi spenti. Trattano i padri con troppo rispetto, oppure con troppo disprezzo. Non sono più capaci di ridere, sghignazzano, sono cupi, e soprattutto non parlano più. E noi non sappiamo capire dai loro silenzi se chiedono aiuto o se stanno per spararti addosso. Sono dei criminali».
Non è un caso neanche che il padre cerchi il figlio per l’intera durata di questo film, La tragedia di un uomo ridicolo (1981), trovandolo soltanto alla fine, che è all’incirca ciò che avviene in La luna (1979), ma a parti inverse, col giovane protagonista destinato a ritrovare il padre soltanto poco prima dei titoli di coda e crescendo all’ombra delle sottane di una madre incestuosa. Se la ricerca del sé nei rapporti col padre, e in un senso più largo con la madre, i fratelli e l’intera famiglia, con le nostre radici e il groviglio culturale da cui discendiamo si fa difficoltosa non può che condurre alla scoperta di una sessualità tormentata, scandalosa, proibita: tracce di incesti, più o meno profonde, si ritrovano, oltre che nei succitati film, anche in The Dreamers – I sognatori (2003), in cui una coppia di figli della borghesia parigina nella stagione sessantottina s’illude di intraprendere una battaglia intellettuale contro i propri genitori («Dovrebbero tutti essere arrestati. Messi sotto processo, costretti a confessare i loro reati e poi spediti in campagna per l’autocritica…») ignorando l’ipocrisia che la loro battaglia nasconde, quella di chi aborre la posizione sociale e intellettuale di qualcuno dal quale, però, non è affatto pronto ad affrancarsi. Nell’universo bertolucciano sembra che non si possa essere figli senza ribellarsi ai genitori per poi incappare nell’amara scoperta di essere tali e quali a loro. Come per i gemelli Isabelle e Théo, anche in Prima della rivoluzione (1964) il protagonista è diviso tra i suoi ideali sovversivi e l’attrattiva di una vita spesa comodamente tra gli agi di cui gode. Proprio come un borghese che abbracci consciamente il marxismo pur nella consapevolezza di poter cascare nuovamente sul terreno da cui proviene, quale in fondo, per sua stessa ammissione, era lo stesso Bertolucci.
Dall’altro lato, confrontarsi coi padri equivale altresì a fare i conti col proprio passato, tentare di rielaborarlo e di superare le contraddizioni che la ciclicità degli eventi comporta. È un’urgenza, per il regista parmense, di cui non ci si può liberare, al punto tale che le vestigia dei nostri avi, a volte, si fanno opprimenti: in Strategia del ragno, la cittadina di Tara sembra essersi sottratta allo scorrere del tempo, e non soltanto perché i due Magnani hanno la stessa faccia e persino gli altri abitanti restano immutati da ieri a oggi, ma soprattutto perché sono tutti incredibilmente vecchi. In pratica, una città popolata da fantasmi.
Ovviamente, qui come altrove non c’è soltanto la scelta di collocare la narrazione in un’epoca già conclusa e consegnata ai libri scolastici, bensì la decisione di costruire un gioco di bambole russe in cui gli eventi privati si intrecciano alla Storia più grande, il presente e il passato si scambiano la mano e ciascun capitolo di questa filmografia costituisce un tassello di un libro che va letto interamente dall’inizio alla fine. L’ossessione per i recenti trascorsi ideologici dell’Italia, dall’insorgere del fascismo al dilagare del comunismo, compresa la trasformazione del mondo contadino, domina la prima parte dell’opera di Bertolucci, mentre la seconda cede il passo al racconto di più ampio respiro, in cui entrano in gioco le sorti di interi mondi, culture e società. Difatti, Bertolucci diventerà uno dei pochi autori (non soltanto italiani) a sapersi elevare dalle storie a carattere privato e provinciale, come John Ford prima e Spielberg dopo di lui, e come altri colleghi della generazione che ha esordito negli anni Sessanta resterà a lungo tra i non molti registi cui si possa riconoscere l’appartenenza di uno stile.
In quanto erede di una tradizione cinematografica che si oppose alla grammatica classica del film, Bertolucci è stato perfettamente in grado di appropriarsene allo scopo di manipolarla e rinnovarla. Si è preso gioco della chiusura a iris, tradizionalmente ritrovabile in situazioni romantiche, per applicarla in un contesto in cui all’amore monogamo si sostituisce un ménage à trois. Ha mutato la tecnica e la modalità d’espressione da una parte all’altra dello stesso film, Il conformista (1970), per adattarle al tema dell’ascesa e della caduta di un membro della polizia fascista, invertendo una composizione precisa del quadro con luci più oscure e movimenti di macchina incerti. Ha affidato a un desueto voiceover l’esposizione dei pensieri di un uomo invecchiato che non riconosce più il mondo in cui vive in Strategia del ragno.
Ha infranto le regole usuali adottate nella costruzione di una sceneggiatura per destabilizzare lo spettatore, interrompendo l’evoluzione di un momento cruciale ne La luna con un intermezzo stonato e insignificante: la cantante lirica Caterina ha appena scoperto che il figlio è eroinomane e lo riprende con una comprensibilmente severa e preoccupata paternale mentre si avviano verso la loro nuova casa; una volta arrivati, vi trovano un operaio impegnato a installare le nuove tende e Caterina, pur avendo ben altri pensieri per la testa, si lascia incomprensibilmente distrarre dal loro colore, che non gradisce, e così l’uomo – nientemeno che un giovane Roberto Benigni – se ne va via indignato, prima che i due possano riprendere la discussione. Non tornerà più, né lui né nessun altro addetto al tendaggio. Perché mai una donna che ha appena visto il figlio bucarsi dovrebbe essere interessata al suo arredamento? Trattasi forse di puro e semplice divertissement, sta di fatto, però, che l’episodio assume un rilievo ingiustificato, suona fuori posto e risulta del tutto inappropriato, ed è proprio per questo che Bertolucci deve averlo voluto. Per confonderci e stordirci. E non sono mica in tanti, dopo di lui, ad aver almeno provato a giocare col canone e a inventarsi un modo di fare cinema che fosse loro, e soltanto loro.
Andrea Vitale
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