Anni luce è «la storia di un viaggio al crepuscolo del secolo», ma è anche la storia di un’amicizia, che riguarda certamente Eddie Vedder, ma non solo, perché non è possibile raccontare i Pearl Jam senza raccontare cosa ha rappresentato per un’intera generazione di adolescenti inquieti il grunge, un genere che tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta ha sconvolto il mondo della musica (e non solo).
Oggi ciò che sopravvive del grunge è soltanto la sua estetica: la moda delle camicie a quadri, dei jeans strappati e persino di un make up ben preciso. Ma quando nacque in quella cittadina nella periferia d’America, il grunge era esattamente l’opposto. Descrivendo con questo termine (letteralmente “sudicio”) un concetto di “sporcizia” del suono che contraddistingueva le band dell’underworld urbano che per certi aspetti li avvicinava al punk, il grunge degli esordi c’entrava ben poco con l’apparire.
I Pearl Jam, più volte citati dall’autore di Anni luce come la band che più di tutte ha segnato la sua gioventù, si proposero al grande pubblico affrontando nelle loro canzoni i traumi familiari e le difficoltà degli adolescenti a confrontarsi con il resto del mondo. Il protagonista descrive ad esempio come Jeremy – sesta traccia di Ten – parlasse della storia vera di un sedicenne del Texas che si sparò sotto gli occhi della sua classe la mattina dell’8 gennaio 1991.
Pomella ci racconta allora gli anni della formazione, sviscerando quel disagio che lo ha accompagnato sin dall’infanzia – segnata dal trauma della separazione dei genitori – e che lo ha portato a condividere l’amicizia con Q. in una sorta di riconoscimento reciproco e speculare del proprio malessere. Con lui Andrea condivide notti votate al rito dell’ubriachezza trascorse ad ascoltare in loop i dischi dei Pearl Jam, feste dove il senso di rovina si sublima nel più totale annichilimento e uno strampalato interrail in giro per l’Europa, trascorso a bere e a guadagnarsi qualche soldo suonando in strada, sempre alla ricerca del whisky meno costoso.
Un viaggio che ha il sapore di una fuga da una Roma che non basta più, da una quotidianità che appare squallida e meschina, e da una vita adulta vista come il principale nemico da combattere. E una fuga soprattutto da quell’angoscia generalizzata che a vent’anni non si può e non si vuole comprendere.
Così se il grunge e il suo corollario di abitudini autolesionistiche ha rappresentato una fuga e insieme un rifugio da una società che si accingeva a condannare l’individuo a forme inedite e spaventose di solitudine, è anche vero che ha offerto a migliaia di giovani un’occasione per sentirsi parte di qualcosa, per rispecchiarsi e immergere la sonda negli abissi di sé stessi. Scrive a questo proposito l’autore:
Non so immaginare la mia giovinezza senza Ten, Vs. e Vitalogy. Quei tre dischi mi hanno dato un’identità. Ero senza volto, immerso in una perenne zona d’ombra, che guardavo ai miei giorni passati e futuri con un ghigno velenoso. E poi improvvisamente ero di fronte a uno specchio, avevo un posto, mi riconoscevo in qualcosa.
Valerio Ferrara
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