Sarebbe limitante dire che L’Argentino è il terzo romanzo di Ivano Porpora, sebbene sia la pura realtà. E la limitazione sarebbe nel sottovalutare l’eclettismo dell’autore. Ha scritto anche poesie, ha scritto fiabe, ha scritto una storia per bambini.
La capacità di piegare la propria voce, il proprio stile, al progetto e al messaggio è una delle caratteristiche che più colpiscono quando si affronta L’Argentino, soprattutto dopo aver letto il precedente romanzo dell’autore, Nudi come siamo stati, a cui questo libro è lateralmente legato.
Mi chiamo Fernando. José Fernando, detto all’epoca Veranito, e poi Nando, Nandito dalle lunghe mani; Nan dalla mia amata, o Verano, semplice e tondo, dalla mia prima ragazza.
[L’Argentino, Ivano Porpora, Marsilio, 2018, p.9]
Comincia così il romanzo, con un incipit che ci parla subito di ciò che si nasconde fra le vicende del libro. Cominciamo subito, insomma, a capire che si parla di sfaccettature, che si parla di identità. Non solo: poiché i nomi non cambiano solo in relazione ai parlanti, alle altre persone, ma anche in relazione al tempo. E allora anche di questo si parlerà: del cambio di prospettive e punti di vista con il passare del tempo.
Eccoci con un protagonista e voce narrante dai mille nomi. E invece l’oggetto del racconto, l’Argentino, non ne ha davvero. Ha un soprannome. Ancora identità.
Potremmo fermarci, ma identità è un termine troppo forte e vasto per poter essere lasciato appeso così, in relazione solo a due elementi di un romanzo. Poiché identità non si riferisce soltanto a una persona, ma anche a un luogo, a una società.
Cos’è un mito fondativo – pensiamo al viaggio di Enea per i romani, pensiamo all’Orlando per gli Estensi – se non un modo per affermare un’identità comunitaria e ricondurre un certo modo di vivere al passato? Il mito condiziona ciò che siamo perché condiziona il modo in cui veniamo allevati, in cui cresciamo, ciò in cui crediamo o da cui ci allontaniamo. In questo paesino rurale della Spagna del ’58, c’è una porta chiusa. E questa porta non dev’essere aperta, non può essere aperta. Ecco il loro mito fondativo.
Adesso abbiamo tutto.
L’Argentino è un uomo che arriva in un posto – con una motivazione apparentemente chiara – e diventa poi il ricettacolo di ogni stranezza che avviene. Il motivo di base scompare e quell’uomo si trasforma, diventa altro. Anche per questo – potremmo pensare – non ha un nome. L’Argentino è una componente sociale che va oltre il suo essere questo o quell’uomo. È l’elemento di disturbo in un sistema collaudato che si tira avanti in modo costante da un tempo oltre il raggio della memoria.
L’impressione che se ne trae leggendo il libro è di un personaggio in qualche modo messianico, venuto a portare la buona novella, ma la sua buona novella (per tacere della cattiva) non è compresa. È un messia punk che non formula più parabole per tentare di essere compreso, ma continua nel suo cammino lasciandosi dietro una scia di dubbi.
Come ogni novità dirompente, può essere accettato o rigettato. E lo vediamo nel suo rapporto con le donne che lo amano incondizionatamente o lo odiano, proprio come nel mondo assoluto di un neonato, in cui esistono solo gli eccessi.
La sua natura di componente sociale di rottura si vedrà sul finale: chi non ha identità si confronterà con ciò che ha dato identità a molti. L’esito dello scontro ci permette ancora una volta di capire cosa significhi davvero la cultura di un popolo, come verità e menzogna siano concetti tutto sommato secondari, finché non si scoperchia il vaso.
Sin dal primo momento, il nostro narratore ci dice che l’Argentino non stazionò poi molto in città. Anzi – e questo è forse indicativo – è un paratesto stesso del libro, la quarta di copertina, a darci quest’informazione. Apriamo il libro sapendo che l’Argentino è una parentesi.
L’abbiamo poi detto all’inizio di quest’articolo: una delle tematiche è anche il tempo. E se da un lato abbiamo il tempo del mito di fondazione, abbiamo il tempo che trascorre da quel momento a quello dell’umana memoria – insomma: ciò che viene dimenticato – e poi abbiamo il tempo presente della narrazione, dall’altro abbiamo un gradiente interposto fra l’inizio e la fine di questo romanzo. Abbiamo il microcosmo precedente l’arrivo dell’Argentino e quello successivo, che si porta dietro inevitabilmente una serie di cicatrici. Su quelle cicatrici si può leggere il rapporto con il tempo. Quelle cicatrici sono punti di discontinuità in una funzione costante. Sono, se vogliamo, ciò che vale la pena di essere narrato.
Che l’Argentino sia venuto, è indubbio; che se ne sia andato, e come, altrettanto indubbio. Ma è quel che c’è stato in mezzo che val la pena te lo racconti, prima che passi la barca che aspettiamo e ci porti nell’oblio.
[L’Argentino, id., Quarta di copertina]
Maurizio Vicedomini
Nobody Wants This è una boccata d’aria fresca nel panorama delle commedie romantiche. Perché la…
#gradostory Gomito alzato, pistola in pugno. Sguardo fisso all’orizzonte – chiuso. Una flotta di navicelle…
#gradostory Somewhere Only We Know, canzone pubblicata dalla rock band britannica Keane nel 2004, è…
Condominio Ogni mattina, alle 4.50, l’inquilino dell’interno 6 prepara il caffè in cialda. Dal momento…
Quest’estate sono entrato in una libreria con la semplice intenzione di dare un’occhiata in giro,…
L’uomo davanti a me s’infila il dito indice nel naso. Avvita, avvita, avvita, fin quando…