Leggiamo l’incipit:
Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore.
Kublai Kan ascolta i racconti di Marco Polo sull’impero di cui è padrone e che mai potrà visitare per intero, anche se impegnasse ogni minuto che gli resta da vivere. Il Kan non sa se il giovane veneziano mente o meno ma quei racconti stuzzicano la sua immaginazione, e tanto basta.
Come detto: siamo verso la fine del libro quando scopriamo che Iris leggerà queste pagine e all’improvviso tutto diventa più chiaro. La lettura salverà Iris. La lettura le restituirà quel mondo che le appartiene, che aspetta soltanto di essere raggiunto fuori dalle mura claustrali.
Una nota: il passaggio riportato de Le città invisibili non è presente nel romanzo di Vincenza Alfano, ma non può sfuggire al lettore attento un richiamo così evidente alla tradizione in un testo in cui, tra l’altro, l’ampia matrice culturale si impone fin dal titolo, dove echeggia il celebre incipit di Moby Dick.
Chiamami Iris di Vincenza Alfano prende il via da Napoli dove Iris, ancora bambina, a seguito della morte della madre, viene prima spedita da un’anziana zia in affidamento sull’isola di Scilla e poi di nuovo riportata a Napoli per essere affidata a un monastero dove verrà avviata al noviziato. Un inizio folgorante. In poche pagine il lettore è posto di fronte a una giovane esistenza, fragile, incapace di poter definire il proprio posto nel mondo e, ancor più, impossibilità a poter definire i propri affetti, in balia del caso. La storia ha poi uno snodo, un salto temporale, e alla vicenda di Iris si alterna quella di suor Irene. La stessa persona, qualche anno dopo, stavolta privata anche del nome.
“Sono stata io la volontaria carceriera di me stessa. Il mio corpo è un pesante involucro vuoto. Un bisticcio con l’anima. Desidero una carezza. L’amore è solo esercizio assiduo di carità? Esiste forse amore senza corpo, senza mani, senza labbra, senza carezze? Ho bisogno di una carezza per sentire che esisto, che non sono una semplice proiezione allo specchio. Un’anima sbiadita che non sa riconoscersi, che non ha colore né consistenza né odore. Un fantasma. Convivo con questa contraddizione, scorre come un fiume carsico che quando può riaffiora. Quando avviene sto male, non mi sono ancora abituata alla verità, preferisco una serena e autocosciente ipocrisia che mi lasci vivere nel dissidio insanabile delle mie ragioni. L’amore di Dio e il desiderio di una vita completa senza censure non possono riconciliarsi. Davvero impazzisco. Rischio la scomunica e l’espulsione dal convento, rischio di finire in mezzo a una strada. Meglio una vita da reclusa. Meglio una vita da peccatrice”.
Un urlo vano, sembra. «Da peccatrice», dice lei. Ma l’inizio d’una rivoluzione del cuore. È infatti da qui che suor Irene comincia a ridefinire la propria identità. Un’identità che si ricostruisce tenendo conto delle buone poche esperienze passate e di quei libri di cui si parlava in apertura – Italo Calvino compreso – e che le permetterà, nel pieno del desiderio amoroso, di poter affermare: «Chiamami Iris».
Così suor Irene riconquista Iris e così la penna delicata, talvolta lirica, della Alfano, senza giri di parole, può, da quel momento, indicare al lettore una nuova via da seguire… quella tracciata dal desiderio d’amore.
Antonio Esposito
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