Ogni volta che la porta della caffetteria si apriva, Frank si voltava a guardare e bestemmiava sottovoce. Non riusciva a trattenersi. Infilava la mano sotto la giacca e accarezzava il calcio del revolver, calmava i nervi, e solo allora riprendeva a bere il caffè.
Milo, suo fratello gemello, stava seduto dall’altra parte del tavolo con un proiettile nella pancia e parlava della Spagna.
“Tu dici che riusciresti a vivere in una città tipo Barcellona, Frankie? Mangiando paella e bevendo quella merda di sangria?” Aveva la voce leggermente strozzata per il dolore. “Non mi è mai piaciuta la sangria, Frankie.”
“Milo, fratello, tu non l’hai mai assaggiata, la sangria. Riesci a mandare giù un po’ di tè?”
Con le mani che tremavano, Milo sollevò la tazza fumante e la portò alle labbra.
“Credo di sì. Comunque io l’ho assaggiata, la sangria. Lo sai, in spagnolo…” Sbiancò leggermente e abbassò la tazza. “Frankie, io non la voglio bere, la sangria.”
Frank guardò il fratello. Lui e Milo erano quasi identici: un metro e ottanta per novanta chili di peso più uno, e quel chilo in più era dato dalla pistola infilata nella cinta. Facevano i buttafuori, avevano sempre saputo badare l’uno all’altro. Ma ora Milo era pallido, e freddo, e tremava sempre più forte. Frank sapeva che tremava per il dolore e non per la paura, perché Milo non aveva mai paura; lui, d’altro canto, cominciava ad avere una paura fottuta.
Dovevano andarsene. Sparire. Dopo, avrebbero pensato a trovare un dottore.
“È quasi fatta,” ribadì allora, “dobbiamo solo lasciare la città. Poi non è detto che dobbiamo andare in Spagna, che ne so, possiamo andare in Grecia o da un’altra parte. Basta che faccia caldo, eh?” Milo annuì. “Basta che ci leviamo dalle palle.”
Intorno a loro, il locale era insolitamente pieno a quell’ora del mattino, anche per un bar di fronte alla stazione. C’era un sacco di gente, ma erano tutti troppo distratti per accorgersi delle smorfie di Milo, del panno macchiato che teneva premuto sotto la giacca, o delle bestemmie soffocate di Frank. Forse pensavano al treno che dovevano prendere, che rischiavano ogni giorno di perdere se non muovevano il culo a finire la colazione. Avevano le loro preoccupazioni, come Frank aveva le sue.
Anche lui, adesso, stava pensando a un treno: quello per l’aeroporto. Sarebbe arrivato fra venti minuti.
Ma ancora una volta la porta della caffetteria si aprì; entrò aria fredda, umida di foschia e neve in arrivo. L’ambiente si raffreddò e, come portate dall’aria gelida, entrarono quattro persone. Frank bestemmiò.
Cappotti lunghi e sbottonati, sciarpe di cashmere, guanti scuri e orologi brillanti. Era gente che contava, proprio il tipo che Frank non avrebbe voluto vedere. Si guardarono intorno, individuarono i gemelli e puntarono dritti verso di loro senza ordinare nulla. A un paio di metri dal tavolo, si fermarono.
Ne venne avanti uno, da solo, e si accostò ai gemelli incombendo come una piccola montagna: era un gigante, verso il metro e novanta e ben oltre i cento chili. Un fisico da giocatore di rugby. Teneva le mani in tasca e rimestava nei pantaloni come se volesse tirare fuori l’uccello e appoggiarlo sul tavolo.
Cominciò a parlare a voce bassa, cordiale.
“Buongiorno, ragazzi. Vi state godendo la colazione, eh? Vero?” Lanciò prima un’occhiata a Frank, poi si soffermò su Milo. “Ah, tu no. Tu non ti stai godendo un cazzo. Sei Milo, giusto? Stai crepando, Milo. Mi dispiace, ma questa è l’ultima colazione che farai.”
“Non sono messo così male, signore,” disse Milo. “Non permetterò che la mia ultima colazione sia uno schifo di tè, signore.”
“Mio fratello ha ragione,” intervenne Frank, “non è messo peggio di altre volte. È solo che lui è quello brutto dei due.”
Il probabile giocatore di rugby tirò fuori una mano dalla tasca e si passò le dita tra i capelli. Ce li aveva impomatati, pettinati all’indietro.
“Vi spiego come funziona, ragazzi. Se dico che Milo, qui, sta crepando, vuol dire tra un po’ sarà morto, perché io so sempre quello che dico. Se dico che questa colazione è la vostra ultima colazione, cazzo, dovete crederci, perché la mia è la fottuta VOCE. DELLA. VERITÀ!”
La caffetteria ammutolì. Fu un istante di silenzio: forse qualcuno pensò di intervenire, poi guardò bene i quattro gentiluomini in piedi e decise che non era affar suo. I cucchiaini ripresero a tintinnare nelle tazze.
“Allora, stanotte,” riprese l’uomo, infilando di nuovo le mani in tasca, “che casino di merda avete fatto? Cos’è successo?”
La mano destra era tornata a rimestare nei pantaloni, e per un attimo Frank pensò che avrebbe davvero tirato fuori l’uccello e l’avrebbe sbattuto sul tavolo. Poi vide qualcosa muoversi sotto il tessuto e gli sovvenne l’immagine di un cazzetto duro, freddo, nichelato: probabilmente, il gigante aveva uno di quei revolver di calibro ridotto e con il cane interno, fatti apposta per sparare dalle tasche.
“Ne sappiamo quanto te, signore,” stava rispondendo Milo, “ci siamo solo trovati in mezzo. Abbiamo risposto al fuoco.”
“E a chi avete sparato? Ai poliziotti, o a quelli vestiti così, come me e i miei amici?”
“A tutti,” disse Frank. “Ai gentiluomini e ai poliziotti. Il fatto è che tutti ci sparavano addosso, si sparavano fra loro, non sapevano più chi stava con chi. Hanno dato di matto.” Sollevando la tazza, si strinse nelle spalle e bevve un sorso di caffè. “Noi ci siamo difesi e basta.”
“Non è colpa nostra,” concluse Milo, con il respiro leggermente affannato, “noi facciamo i buttafuori. E basta, ecco.”
L’uomo col cappotto sbuffò una specie di risata, dal naso, come un toro. Si voltò a guardare gli altri uomini in cappotto, ma i suoi amici erano seri.
Ancora una volta i clienti della caffetteria si agitarono sulle sedie, a disagio. I loro problemi di treni e colazioni stavano passando in secondo piano: adesso era tutta quanta la giornata che minacciava di uscire dai binari.
“Secondo voi,” disse il gigante, tornando a chinarsi su Milo e Frank, “secondo voi mi frega un cazzo di che lavoro fate, ragazzi? Secondo voi questo cambia la situazione?”
Si raddrizzò e fece un passo indietro, e a quel punto la sua tasca destra esplose.
Frank sentì il bruciore alla spalla e il contraccolpo che lo sbalzava dalla sedia. Capì subito due cose: uno, che quel tizio grosso e impomatato gli aveva sparato; due, che il colpo di quella pistoletta non lo avrebbe ucciso. Capì anche che adesso era per terra e che non avrebbe fatto in tempo a estrarre, quindi in un modo o nell’altro sarebbe morto comunque.
E mentre capiva la terza cosa e l’adrenalina gli entrava in circolo, la caffetteria si mise a fuoco, come una serie di fotogrammi visti da ubriaco. In colori vividi e con movimenti rallentati, gli altri tre gentiluomini estrassero le armi da sotto i cappotti. Alcuni dei clienti urlarono, come un’eco di sottofondo, e anche Frank cercò di prendere la pistola, ma aveva il braccio buono fuori uso e si muoveva al rallentatore come tutti gli altri.
Tutti tranne Milo. Milo era sempre più rapido a sparare che a pensare. Con il panno insanguinato ancora premuto sotto la giacca, poggiò il calcio della pistola sul tavolo e fece fuoco contro uno degli uomini, che aveva l’arma già puntata contro di lui. Milo doppiò il colpo, e il petto dell’uomo esplose in due schizzi rossi mentre le pallottole gli attraversavano il cuore.
Subito dopo toccò agli altri. Li impallinò alla stessa maniera, uno-due, uno-due, e in breve tre uomini con cappotto stavano spargendo sangue per la caffetteria.
Rimaneva solo il primo, il gigante, che forse giocava a rugby e aveva i capelli impomatati e si divertiva a sparare dalle tasche. Non si sarebbe fatto prendere di sorpresa, lui. Si era piegato, chinandosi sul pavimento, e a quel punto afferrò il bordo del tavolo e lo ribaltò addosso a Milo con una mano, mentre con l’altra estraeva la pistola. Era proprio un piccolo revolver da taschino. Allungando il braccio, lo puntò contro la faccia di Milo con l’intento di fargliela esplodere.
Chiudendo un occhio per mirare, Frank sparò il suo colpo.
Non era mancino, ma il colpo fu buono. Il proiettile entrò a lato dell’orecchio e uscì dalla nuca portandosi dietro un bel pezzo di calotta cranica. Il gigante barcollò all’indietro e cadde morto fra i propri compagni.
La caffetteria si era svuotata. A fatica, cercando di non appoggiarsi alla spalla ferita, Frank si tirò su. Anche Milo si stava mettendo in piedi, con il respiro pesante e una mano premuta sulla pancia. Avevano un proiettile a testa, ora. E avevano bisogno di un dottore, ma prima dovevano andarsene. Sparire.
“Andiamo via, Frankie,” ansimò Milo. “Andiamo in Spagna.”
Sul pavimento, il sangue si era mischiato a tè e latte e caffè formando uno strato viscido. I gemelli ci sguazzarono per qualche passo, verso la porta.
“Non lo so, fratello.” Si aggrappò al suo braccio, cercando di non incespicare. “Ora che ci penso bene, neanche io ho voglia di sangria. Però leviamoci dalle palle.”
Appoggiandosi l’uno all’altro, imboccarono l’uscita e tirarono avanti. Verso la stazione e l’aeroporto, e forse verso la Spagna.
Alfredo Vazzoler
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