Rupert Everett segna il suo esordio alla regia con un’opera complessa e delicata. The Happy Prince, un biopic incentrato sugli ultimi anni di vita di Oscar Wilde, quelli più cupi e più insoliti.
Il corpo, la voce, la postura e la morale dello scrittore irlandese sono costantemente al centro dell’attenzione del regista. La narrazione della vita di Oscar Wilde, genio indiscusso, si sviluppa dalla scarcerazione alla morte, con l’inserimento di brevi e continui flashback che riflettono il percorso esistenziale ampiamente dibattuto dello scrittore.
Oscar Wilde era immenso nelle sue mille sfaccettature: genio letterario, individuo trasgressivo dalla sessualità ambigua, marito e padre, snob, narcisista, egocentrico, amante del lusso e degli eccessi dal sesso all’alcool, dall’abuso di droghe e assenzio, e come dimenticare le sue frequentazioni di mercenari del sesso. Era questo e molto altro Oscar Wilde, e tutto questo è presente nel film. Wilde coi suoi pregi e i suoi difetti, tutto. Rupert Everett ha voluto rappresentare una china discendente verso gli inferi degli ultimi anni di vita dello scrittore irlandese, senza indorare la pillola e senza per forza inseguire una figura di icona letteraria adamantina; descrivendolo, invece, come un demoniaco approfittatore di altri esseri umani.
Una scelta quanto mai coraggiosa, descrizione fedele e realistica ma soprattutto ben documentata che consegna ai suoi fan, ma anche a chi non aveva ancora conosciuto Wilde, la rappresentazione dello scrittore a tutto tondo nell’epilogo della sua esistenza, il cui animo minato da eventi traumatici, come il carcere e la separazione dalla sua famiglia rendono fragile, spengono le sue straordinarie capacità creative, generano derive autodistruttive, senza però mai alterare quei tratti fondamentali del suo carattere che ce lo rappresentano al meglio.
Dopo gli anni di prigionia, verso la fine del diciannovesimo secolo Oscar Wilde si trasferisce in Francia, sulla costa nord al principio e poi a Parigi. La Belle Epoque e le atmosfere francesi gli concedono il lusso di poter vivere le naturali tendenze alla trasgressione e ai piaceri edonistici. Si spinge poi con l’amico/amante Bosie, ossia Lord Alfred Douglas, a Napoli, dove ancora una volta non trova grandi ostacoli nel coinvolgere giovani partenopei nei suoi festini orgiastici.
Il regista riesce a riprodurre le ambientazioni dell’epoca restituendo un fascino fedele. Questi sono gli anni più brutti per l’artista, la sua decadenza è sempre più vicina, l’abuso di alcool, cocaina ed assenzio, la scarsa alimentazione, l’aver contratto la sifilide portano in fretta il corpo ad un deperimento organico, al quale si aggiunge una infezione seria a un orecchio e non da ultimo le sofferenze psicologiche per la separazione dalla moglie Constance, che continuerà ad amare tenacemente il marito anche dopo essere stata costretta a bandirlo dalla propria vita e da quella dei figli; e che pare essere l’unico personaggio capace di influenzare la vita dello scrittore e turbare i suoi sonni.
In linea con la scelta degli eventi da narrare Rupert Everett costruisce una pellicola dominata dai toni del grigio e del nero. Wilde è continuamente circondato dalla nebbia. Tutto si svolge nei sordidi locali notturni della Parigi malfamata, o in esterni cupi e piovosi.
Anche l’atto di redenzione in punto di morte non è che un atto di amore, un amore che finalmente porti pace a quest’uomo. Sul letto di morte Wilde sembra trovare consolazione nel battesimo e nell’estrema unzione. D’altronde lui stesso soleva dichiarare che “il cattolicesimo è la sola religione in cui valga la pena di morire”.
Anna Chiara Stellato
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