Nella prima stagione di Hill House, episodio 6, la famiglia Crain – mamma, papà, i figli Steven, Shirley, Theo e i gemelli Nell e Luke – viene sconvolta in piena notte dall’arrivo di una turbolentissima tempesta. Le vetrate delle finestre al piano superiore cominciano a infrangersi, la pioggia penetra nelle stanze da letto e i più piccoli di casa sono comprensibilmente spaventati. Mentre si stringono l’uno all’altro tentando di rassicurarsi accade qualcosa di imprevisto, anche se apparentemente destinato a risolversi senza alcuna conseguenza sensibile nell’economia del racconto: la figlia minore, Nell, scompare. Chissà dove si è cacciata, si chiede il resto della famiglia. Forse qualcosa l’ha presa, ci domandiamo noi spettatori, in una casa infestata da fantasmi – non ve l’abbiamo ancora detto? Ebbene, ci sono inquietanti presenze di cui anche gli inquilini più piccoli sono al corrente.
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Perché nessuno riesce a vederla?
Ebbene, si danno tutti da fare per trovarla, e nel frattempo qualcos’altro, decisamente più allarmante, accade, qualcosa che si muove tra le stanze della casa, sostituendosi adesso alla tempesta nei timori della famiglia (cosa vuoi che importi di quello che c’è fuori quando c’è un motivo qui dentro per cui preoccuparsi?). E così, sembrerebbe che la scomparsa improvvisa della povera Nell sia soltanto un pretesto per separare i suoi parenti e sparpagliarli lì dove sono più indifesi, se non fosse che poi la bambina riappare proprio nel punto in cui l’avevano lasciata. In lacrime, spaventata e turbata, Nell domanda a gran voce perché gli altri non riuscissero a vederla. Un’interferenza sovrannaturale ha mutato provvisoriamente la percezione sensoriale dei Crain, sicché nessuno di loro poteva vederla o sentirla mentre lei continuava a restarsene immobile e a chiamarli. È a questo punto che Hill House manifesta di averci solo fatto credere di guardare una serie horror, mentre in realtà stavamo assistendo a un dramma familiare in piena regola e in grande stile, e l’inspiegabile sparizione di Nell si unisce per metafora alla condanna di trascuratezza inflittale dalla famiglia. Anche agli occhi degli spettatori Nell sembra essersi dileguata, per quell’arco di tempo in cui s’ignora che fine abbia fatto, perché anche noi dobbiamo, alla fine, sentirci colpevoli di non aver saputo guardare. «Sono sempre stata qui», piange la bambina, e allora perché nessuno riesce a vederla?
Hill House, la serie horror che commuove
The Haunting of Hill House – in italiano soltanto Hill House – è la serie Netflix ispirata alla casa del romanzo partorito dalla penna di Shirley Jackson nel 1959 e adattato sotto forma di lungometraggio nel ’63 e nel ’99, oltre che svariate volte per il teatro. L’interrogativo principale, alla vigilia del suo debutto sulla piattaforma, era come avrebbe fatto l’ideatore e regista Mike Flanagan a mantenere inalterato il potenziale orrifico della storia per l’intero arco di tempo delle 10 puntate. Semplice, non l’ha fatto. Flanagan ha sostituito la forza spaventevole insita nel materiale di partenza con quella ansiogena e angosciante, sicché la sua serie non fa veramente paura ma conta su un effetto di gran lunga più penetrante.
L’immaginario horror riproposto da Hill House è quello tipicamente noto al grande pubblico del cinema e della tv: la solita villona americana circondata da verde a dismisura, una famiglia sui generis che l’abbia abitata in precedenza, i fantasmi delle persone defunte ancora intrappolati tra quelle mura che tornano a terrorizzare i nuovi residenti, porte che si chiudono da sole, porte che non si aprono, ombre e figure fuggevoli che appaiono e scompaiono in un secondo. La novità sta nel modo in cui la serie sottomette l’elemento pauroso a quello drammatico, che si fa vero motore e ragione degli eventi.
Chi è la famiglia Crain
Il piano temporale su cui sono spalmati gli episodi si divide invece tra i giorni trascorsi a Hill House, nell’estate del 1992, e il presente in cui i protagonisti sono ormai adulti e impegnati a rielaborare a loro modo l’eredità che quell’infanzia gli ha lasciato: Steven è uno scrittore affermato, specialmente grazie al libro in cui ha raccontato le vicende della famiglia vent’anni fa, prima che abbandonasse la casa per sempre, e sulle quali però nutre considerevoli dubbi; Shirley possiede un’agenzia di pompe funebri insieme al marito; Theo è una psicologa infantile dotata di capacità sensitive e barricata nella sua barriera di algidità e solitudine; dei due gemelli, Luke e Nell, lui combatte contro la sua dipendenza dalle droghe dentro e fuori i centri di riabilitazione e lei è afflitta da una grave paralisi del sonno (e non solo); il padre Hugh si è rivelato incapace di instaurare un legame sincero coi figli e la madre Olivia ha lasciato le penne in quella casa prima che potesse salvarsi. E tutti hanno difficoltà a relazionarsi tra di loro, che gli esplode in piena faccia quando si ritrovano, nel presente, al funerale di Nell – con una tempesta a imperversare ancora una volta. Davanti alla salma della sorella minore, i suoi più stretti congiunti sono inadeguati, si ubriacano, litigano, non hanno la benché minima idea di cosa fare o dire, come se il cadavere nella bara non appartenesse a uno di loro. Non sanno piangere, non sanno addolorarsi. I fantasmi del passato ritornano, e non solo in senso figurato, a dirgli che non ci si libera mai dei mostri dell’infanzia.
I drammi familiari che fanno paura
È facile intuire come, se si fosse trattato di un prodotto televisivo di qualunque altro genere, l’assunto sarebbe rimasto invariato. L’horror ha la parte dell’origine da cui i problemi dei Crain hanno inizio, il resto ha il sapore e i toni del racconto familiare (i critici americani, non a caso, citano This Is Us quale termine di confronto preferito). Anzi, Flanagan insinua persino il dubbio che alcuni dei principali traumi che colpiscono la famiglia protagonista e nei quali il sovrannaturale pure gioca il suo ruolo – il regredire della sanità mentale della mamma, la dipartita del marito di Nell – prima o poi si sarebbero verificati ugualmente anche senza l’intercedere di forze ultraterrene.
La più strabiliante invenzione della serie, probabilmente, sta nel mantenere invariati i segni e cambiarli però di significato, al punto che è il contenuto drammatico a ingenerare apprensione nello spettatore, come la morte di un parente, il timore che un tradimento venga scoperto, il pericolo di ricadere nelle cattive abitudini, mentre quello horror intenerisce.
Chi ci protegge dai nostri fantasmi?
Prendiamo il caso di Luke, tormentato sin da bambino da un fantasma con le fattezze di un uomo incredibilmente alto che si libra dal suolo di qualche centimetro. Ogni volta che si presenta a spaventarlo, il piccolo Luke conta fino a sette – quanti sono i membri della famiglia, compreso sé stesso – finché quell’uomo non scompare. Quando, ormai adulto, solo, spaventato, mentre vaga per strada senza sapere dove andare, scalzo e con le ecchimosi procurategli da un’aggressione, il fantasma torna a perseguitarlo, Luke ricomincia a contare, ma lo spettro è sempre lì, dietro di lui. E Luke insiste, riconta, da uno a sette, ed è difficile a dirsi quanto sia commovente vederlo provare e riprovare continunando a illudersi che prima o poi funzionerà, aggrappandosi al pensiero dell’unica cosa che dovrebbe dargli conforto, coraggio, amore – la famiglia – e che tuttavia, allora come adesso, non è mai stata in grado di dargliene quanto necessitava, di ascoltarlo, di credergli, di proteggerlo. Almeno, non ancora.
Andrea Vitale