Capita – delle volte – che esistano delle storie che ci porteremo appresso per sempre. Storie inusuali, magari, senz’altro dolorose, conflittuali, lontanissime dal nostro vissuto, ma che per un motivo o per l’altro sembrano ugualmente scritte apposta per noi. A me è successo con Cassandra al matrimonio di Dorothy Baker.
Nulla pare richiamare la mia esperienza di vita: né il luogo (un ranch californiano), né il tempo (un’estate dei primi anni Sessanta), né l’intreccio (l’imminente matrimonio della propria sorella gemella), nemmeno i tormenti della protagonista (la bruciante gelosia per la gemella, il desiderio di fondersi con lei in un unico individuo, il dolore per la perdita della madre, l’angoscia e la desolazione di sentirsi del tutto fuori posto nel mondo). Eppure, ogni pensiero e ogni parola di Cassandra risuonano ancora dentro di me come raramente mi è accaduto leggendo un libro.
A prima vista, la storia è ancora una volta molto semplice. È una torrida estate dei primi anni Sessanta e Cassandra Edwards sta facendo ritorno al ranch di famiglia in vista del matrimonio della sorella gemella. Fa qualche tuffo in piscina, si prepara dei cocktails, litiga con il padre, aspetta la sorella. Pensa, soprattutto. E i suoi pensieri ci aggrediscono. Ben presto, infatti, capiamo che in cuor suo, Cassandra vorrebbe convincere la gemella Judith a rinunciare al proprio matrimonio. Perché – come afferma lei stessa – Judith e lei avrebbero dovuto “essere la stessa persona”.
Eccolo, il dramma esistenziale di Cassandra. Perché – immancabilmente – per Judith non è affatto così. Judith vuole una vita “normale” (essere un individuo unico e libero, amare un uomo, avere dei figli, trovare un lavoro, dimenticare il passato), ma il vero dramma per Cassandra è che non solo Judith vuole quel tipo di vita, ma ci è tagliata proprio. Come la maggioranza delle persone che Cassandra ha intorno. Ma per Cassandra non è così. Non ci è tagliata e non la vuole, una vita del genere. Forse, a pensarci bene, non vuole nemmeno una vita.
“Essere come noi non è facile” viene detto a un tratto nel romanzo, “si tratta di impegnarsi incessantemente per riuscire a essere il più diverse possibile; perché, affinché ci possa essere un ponte, prima deve esserci uno spazio da attraversare.” E mentre per Cassandra “il vero progetto è il ponte”, per Judith ciò che conta è “quel che c’è al di là di esso”. Nonostante a una prima impressione possa sembrare difficile riuscire a immergersi in problemi esistenziali così vibranti (e che probabilmente non ci appartengono affatto), vi assicuro che non è così.
Fin da subito, Cassandra ci assale. I suoi pensieri ci colpiscono, ci fanno piangere, a tratti addirittura sono in grado di scioccarci, di lasciarci senza fiato. Eppure sono così delicati, così spontanei, così acuti. Impossibile rimanere semplici spettatori. Ed è proprio questa la grande bellezza del romanzo, il suo vero punto di forza: riuscire a coinvolgerci, veramente e al di là di tutto. Soprattutto grazie al mostruoso talento narrativo di Dorothy Baker, capace di passare da un registro all’altro con l’agilità di un acrobata.
C’è tutto, dentro questo romanzo: poesia, arguzie, dialoghi avvincenti, descrizioni liriche, suspense, lacrime, risate. Ma non solo. Infatti è arricchito, inoltre, da una (più) breve parte nella quale passiamo a seguire la storia dal punto di vista di Judith. E ancora una volta, anche qui la Baker è eccezionale nel cambiare registro, pensieri, approccio alla storia, non limitandosi alle solite, piccole modifiche del lessico. Sembra davvero di essere davanti a un’altra persona. A Judith, non più a Cassandra. E ogni minimo dettaglio serve a rafforzare ancora di più la potenza narrativa e l’irruenza del vissuto di Cassandra, che tornerà a parlarci in prima persona nella parte finale del romanzo.
Ma torniamo al cuore del problema. Perché Cassandra soffre tanto? Già dalle prima pagine veniamo immersi nell’intimità del suo dolore: l’impossibilità, cioè, di combattere contro la propria natura. Di abbandonare un desiderio che nasce dal profondo e che anche quando viene a galla non si riesce mai a conoscere fino in fondo. Un desiderio invincibile, che la mancata comprensione da parte degli altri la obbliga a mantenere segreto, oscuro. Quel sentimento tremendo di alienazione che percepisce ogni volta che le parole degli altri le risuonano nelle orecchie come inconcepibili.
L’intensità del dolore, la profondità dei pensieri, l’intera gamma delle emozioni di Cassandra, persino la sincerità delle sue affermazioni, ricordano in qualche modo solo la Esther di “La campana di vetro” di Sylvia Plath. Ed è impossibile rimanerne indifferenti. Come ha detto una volta Faulkner: “Il cuore umano in conflitto con se stesso può fare da solo una buona storia, perché è l’unica cosa di cui valga la pena scrivere”.
Mi ricordavo dell’emozione che avevo provato leggendolo. Della bellezza delle descrizioni paesaggistiche, ma soprattutto della raffinatezza e del coraggio che l’autrice utilizza nell’aggredire e nell’immergersi in quella materia delicata e spiazzante che è l’animo umano. Delle sue abilità linguistiche ed introspettive.
In un linguaggio asciutto, mordace, a tratti ironico e a tratti lirico, “Cassandra al matrimonio” si contraddistingue per una narrazione fluida, spedita, nonostante poca punteggiatura e lunghi periodi dedicati a pensieri che si alternano a dialoghi e a ricordi, in un tutt’uno di sentimenti ambivalenti. Ma Cassandra è sempre lì, davanti a noi, come un rompicapo da risolvere. E anche se non tutti –e non sempre – riusciremo, una volta concluso il libro, a comprendere le vere ragioni del suo dolore, potremo comunque dire di aver letto qualcosa di straordinariamente sconcertante, intelligente e appassionante.
Se l’avete dimenticato nel cassetto, prendetelo in mano e apritelo a qualsiasi pagina (ma se proprio devo scegliere, apritelo alla pagina 87 verso il basso e procedete nella lettura per altre quattro o cinque pagine).
Anna Pietroboni
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