Mutis e i lacerati grugniti di caverna
Con La Neve dell’Ammiraglio (Einaudi, 1996) Mutis ci mostra un antieroe – Maqroll il Gabbiere – alle prese con il più perfido dei demoni: quello del linguaggio.
Oh no, nel romanzo non c’è spazio per morali edificanti, il viaggio dell’eroe o una presa di coscienza da parte del protagonista: la lezione – una delle tante – che impartisce Maqroll è «C’è un’aridità a cui è meglio non avvicinarsi. Si trova in noi ed è meglio ignorare l’estensione che occupa nella nostra anima.» (pag. 90)
Una costante deriva
Alla fine del percorso il protagonista non conosce se stesso né più né meno che prima di intraprenderlo; il diario che raccoglie le sue memorie lo scrive per staccarsi dalle vicende e non per ricordarle e farne tesoro.
Qualcosa si è concluso. Qualcosa comincia. Ho conosciuto la selva. Non c’è stato niente in comune tra noi, non porto via nulla. Solo queste pagine daranno, forse, una sbiadita testimonianza di un episodio che dice molto poco della mia accortezza e che spero di dimenticare il più presto possibile. (pag. 112)
Già, il viaggio… Maqroll percorre un fiume – l’immaginario Xurandò – su una nave guidata da un capitano alcolizzato. La sua meta è raggiungere le segherie sperdute nella selva per iniziare alcune transazioni, ma ben presto il navigare di Maqroll si trasforma in un errare senza una destinazione, in costante deriva sia fisica sia mentale. Il diario diviene per Maqroll l’unica àncora di salvataggio, anche se più volte egli si accorge che la scrittura non può rendere giustizia ai sentimenti, in quanto «Non sono cose da scriversi, non soltanto perché con ciò non si anticipa nulla, ma perché, già nel ricordo, soffrono di non so quale rigidità e ci sono cambiamenti così notevoli che non vale la pena fissare in parole.» (pag. 99)
Il fiume del linguaggio
Per Maqroll discendere il fiume significa andare incontro agli ostacoli della comunicazione: il fiume è metafora del linguaggio e affrontarlo porta a scoprire che nulla in esso è pacifico, che il linguaggio è fatto per nascondere o confondere, anche perché «La verità risulta impossibile da comunicare.» (pag. 104)
E che la comunicazione si basi sempre su un insormontabile inganno, lo sospettiamo fin dalle prime pagine, quando l’io letterario di Mutis racconta di aver trovato gli appunti sbiaditi di Maqroll casualmente, in un volume acquistato in libreria per le sue ricerche storiche. Tale circostanza incornicia il leit motiv dell’opera: la sistematica inconciliabilità tra domanda e risposta. «Quando ora cerco di raccontare ciò che allora soffrivo, mi rendo conto che le parole non riescono a raggiungere il senso che voglio dar loro.» (pag. 58)
Marchiati dall’incomunicabilità
Il romanzo si basa sull’incomprensione che ci attanaglia: ogni volta che il protagonista scrive, parla o ascolta, ne esce atterrito, confuso. L’idea di Maqroll è che il linguaggio si mostri nella sua genuinità a sprazzi e solo quando è oramai troppo tardi, quando nella vita si è già scommesso contro se stessi. «L’enigma fluisce sotto le parole. Per questo la loro trascrizione risulta insufficiente. Le parole… nascondono l’autentico motivo del dialogo.» (pag. 78)
Proseguendo nella deriva, Maqroll intuisce altre verità nascoste: non è solo la parola a tradire, ma anche il destinatario è vittima e carnefice di quel demone infido.
Sapere che nessuno ascolta nessuno. Nessuno sa nulla di nessuno. Che la parola, oramai, in sé, è un inganno, una trappola che nasconde, maschera e occulta il precario edificio dei nostri sogni e delle nostre verità, tutti marcati dal segno dell’incomunicabile. (pag. 138)
Costretti a raccontarci
È irrisolvibile questo naufragio senza fine? Per raccontare sarebbe bello anzitutto sforzarsi di ritrovare il senso che apparteneva alle parole nei tempi antecedenti alla scrittura e che è andato perduto. Raccontare storie è la condanna insita nell’essere umano (l’essere di linguaggio) e il narratore non può che utilizzare il paradosso della scrittura per esprimere questo pensiero:
Quando racconto del mio errare, delle mie cadute, dei miei fatui deliri e delle mie orge segrete, lo faccio unicamente per trattenere, ormai quasi nel vento, due o tre grida bestiali, lacerati grugniti di caverna con i quali potrei più efficacemente dire ciò che davvero sento e ciò che sono. (pag. 139)
Ma sì, il testo lo dice, affidandosi però a Maqroll, uno straordinario personaggio che anela a dimenticarsi e che tuttavia è stato in grado di navigare sul più traditore dei fiumi, affidandoci una storia che arpiona il bordo delle nostre malinconie. Una di quelle rare storie che ci lascia il retrogusto dolceamaro di quando si ha l’impressione che a scrivere sia stata un’anima affine. Maqroll è un vecchio amico che non ricordavamo, e leggendolo gli lanciamo sguardi compassionevoli così come ascoltiamo ammirati/atterriti i suoi pensieri, giurando a noi stessi di non scordarli e farne tesoro.
Non scordarli: questo è l’obiettivo; ma, come direbbe Maqroll:
Non fidarsi della memoria. Ciò che crediamo di ricordare è completamente estraneo e diverso da quanto in verità è accaduto. Quanti momenti di un irritante e penoso astio ci riconsegna la memoria anni dopo come episodi di una splendida felicità. La nostalgia è la menzogna grazie alla quale ci avviciniamo più velocemente alla morte. Vivere senza ricordare è, forse, il segreto degli dèi. (pag. 138)
Luca Pegoraro