Lo strumento era un arcobaleno di riflessi colorati, cristallini, eterei. Il vento soffiava e s’insinuava tra i bordi grezzi delle stalagmiti che perforavano l’aria fredda del ghiacciaio.
Di legno aveva solo la cassa, protetta, congelata in una crisalide centenaria d’acqua dura e immobile.
I pedali d’ottone spuntavano dalla base come tre denti incisivi malcurati, lisci e appannati.
I tasti, incastonati in un ripiano di ghiaccio limpido, parevano fluttuare nell’aria lucente. Con le giuste mani sapevano dar vita a tutto il frigido complesso, attirando a sé tutto ciò che respira.
E le giuste mani le aveva un solo uomo.
Un uomo solo, che abitava in una nicchia sotto la cassa lignea nella quale correvano le corde ben conservate del Pianoforte Boreale.
Il nome di quest’uomo era Maputu Mbuktu. Un negro, schiavo prima di un negriero, poi del pianoforte. Maputu se l’era dimenticato, il suo nome. Non parlava con qualcuno da quando venne scaraventato fuori dalla nave centinaia di anni prima.
Per il ghiaccio la pelle di Maputu si era irrigidita, impallidita d’azzurro. Il suo cranio lucido rifletteva il blu del cielo, i capelli e la barba gli erano caduti molto tempo prima. Non aveva vestiti.
Ogni mattina gli uccelli arrivavano all’iceberg di Maputu. In una piccola fossa facevano cadere pesci e granchi, presi chissà quanto lontano da lì.
Poi gli orsi bianchi, con pezzi di carne cacciata. Talvolta si portavano dietro i cuccioli.
Foche, balene, pesci, meduse, seguivano.
Infine il lupo, che si avvicinava amico all’ancora dormiente Maputu svegliandolo con l’alito.
Maputu a quel punto disincagliava le palpebre gelate con un leggero scricchiolio che solo il lupo e gli orsi udivano. Maputu si alzava, si sgranchiva, si sedeva sul suo piccolo sgabello di ghiaccio e portava le mani avanti, senza appoggiarle però, come se volesse sentire il calore della tastiera.
Nel completo silenzio sfiorava i tasti tirando a sé una nota dopo l’altra, come una collana di perle. Le mani di Maputu diventavano crostacei che camminavano sul tappeto bianco e nero.
E la musica era meravigliosa, albeggiante, e a questa faceva eco il vento tra le stalagmiti e le onde contro i bordi dell’iceberg di Maputu.
E Maputu sonava, sonava, a memoria non sua. Una memoria antica, scolpita nei tasti, che guidava le dita del negro sul freddo avorio.
Continuava per ore, senza fermarsi, finché il ritmo rallentava e il volume si affievoliva e si dissolveva nel respiro caldo degli spettatori.
Solo quando l’ultima nota si perdeva nell’aria cristallina gli animali si muovevano e ritornavano nelle loro dimore.
L’unico a non andarsene era il lupo, cucciolo quando naufragò su quei ghiacci.
Rimaneva lì, mangiando assieme a Maputu le offerte che gli animali avevano portato.
Poi si accoccolava ai suoi piedi aspettando l’imbrunire, e allora tornavano gli animali, e tornava la musica del negro.
La sera la melodia era più ritmata, cristallina, come se volesse far ballare gli animali.
A ballare però erano gli spiriti in cielo, che si illuminavano e danzavano e facevano l’amore col firmamento. Tessevano un velo di seta cangiante che si muoveva al vento.
Poi Maputu si fermava, alzava le mani dalla tastiera e la magia finiva.
Dopo aver mangiato di nuovo col lupo, il negro si rannicchiava nel suo loculo e smetteva di respirare, mentre il lupo se ne tornava nella sua tana.
E così ogni giorno per secoli, finché i ghiacci non cominciarono a restringersi, restringersi, restringersi sempre di più.
Gli orsi non vennero più a sentire la meravigliosa musica, le foche erano poche.
Il lupo era rimasto fedele. Una sera il lupo intuì che avrebbe dovuto fare una scelta, sopravvivere o continuare a sentire la musica. Dopo la sonata serale, per la prima volta dopo secoli, il lupo si accoccolò con Maputu nella nicchia sotto la cassa del pianoforte.
Durante quella notte la piccola piattaforma galleggiante di Maputu si staccò dal resto dell’iceberg e venne rapita dalla corrente.
Maputu continuò a sonare ogni mattina e sera per tutte le settimane in cui la tavola galleggiante riusciva ad ospitare il peso del piano. Le stalagmiti diventate della dimensione di un pollice non sonavano più al passare del vento.
Maputu sonò davanti le coste della Groenlandia, di Labrador, Newfoundland e persino Boston e New York, dove qualcuno l’aveva anche fotografato. I testimoni raccontavano di una musica bellissima e sconosciuta, che faceva scoppiare in lacrime chi l’ascoltava.
Ma quelli furono tempi moderni e le testimonianze vennero scambiate per falsi e i fotografi per folli.
Il pianoforte boreale affondò dalle parti del Delaware, e con esso anche Maputu e il lupo.
Affondarono tranquilli, mentre la musica s’intorpidiva man mano che il piano scendeva.
Poi sparirono nell’acqua e nel sale.
E la musica cambiò in silenzio.
Pietro Patrizi
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