Alla vigilia di quest’ultima edizione di Sanremo targata Claudio Baglioni, la questione più interessante sollevata dalla selezione dei cantanti in gara concerneva la novità costituita, appunto, dalla scelta degli interpreti, prima ancora che delle loro canzoni. O meglio, se anche solo una presunta novità, come potevano far supporre i loro nomi, ci fosse o meno. Sulla carta, pareva proprio di sì: Motta, Ex-Otago, Achille Lauro, Ghemon, The Zen Circus e in misura minore anche i Boomdabash rappresentano quella fetta di mercato discografico che trova espressione più nei concerti live e nella circolazione sul web che non nei passaggi sulle grandi radio e in televisione. C’è chi li chiama indie, chi alternativi, chi outsider, ma la sostanza è la stessa: grandi nomi del panorama attuale che buona parte del pubblico televisivo – ancor prima che musicale, ché Sanremo è innanzitutto un evento televisivo – non conosce.
Non è certo questa la novità. Lo scorso anno pochissimi sapevano chi fossero quelli de Lo Stato Sociale prima di imparare a canticchiare il ritornello di Una vita in vacanza, e qualche anno prima lo stesso si può dire per i Perturbazione o Marta sui Tubi. Insomma, il Festival di Sanremo ha sempre accolto tra i fantomatici big o campioni due o tre cantanti sulla cui notorietà in molti, da casa, rimanevano perplessi. L’aspetto (in apparenza) dirompente di questa presenza stava nel fatto che nel 2019 la loro quota è stata decisamente più alta (specie se poi gli si aggiunge anche il vincitore Mahmood, proveniente dall’area Giovani ma, per chi ha buona memoria, tutt’altro che esordiente). La questione di cui sopra, anzi, al plurale, le questioni erano due: se questi artisti avrebbero conservato la propria identità anche sul palco dell’Ariston o si sarebbero omologati al gusto nazionalpopolare per compiacere il grande pubblico, e se sarebbero riusciti a portare davanti allo schermo anche quelli abituati ad ascoltarli dal vivo o attraverso lo schermo del loro cellulare.
All’indomani della prima serata del Festival, martedì 05 febbraio, una risposta al primo dei due interrogativi ci era già stata data, benché non fosse univoca per tutti i performer sopra menzionati: di questi, infatti, c’è chi ha scelto di rimanere fedele a sé stesso e chi, diciamo così, ha optato per intraprendere una strada nuova: Motta ha fatto Motta, gli Zen Circus quello che ci si aspettava da loro, Mahmood ha confermato il suo stile eclettico che già aveva palesato nel 2015. Gli altri meno.
Per chi conosce Ghemon e Achille Lauro come rapper, sarà probabilmente rimasto sorpreso dal non averli sentiti rappare. Scelta che li equipara al Nesli di cinque anni fa, quando anche lui arrivava sullo stesso palco con la sua etichetta di cantante non-commerciale. Gli Ex-Otago hanno lanciato un brano non particolarmente distante dalla loro precedente discografia, ma che è comunque più rassicurante, sentimentale e tradizionale di quanto ci hanno abituato sentire e, per loro stessa ammissione, diverso da quello con cui provarono a entrare a Sanremo anni addietro. Infine, i pugliesi Boomdabash hanno rinunciato alla loro abitudine di inserire intere strofe in salentino, preferendo, tra il dialetto e la lingua nazionale, quella che potesse arrivare a più persone. Da questo punto di vista è stata più coerente la scelta di Nino D’Angelo di continuare a cantare come ha sempre fatto, in napoletano. Persino l’accoppiata Briga-Patty Pravo, alla prova dell’ascolto, si è rivelata una delusione: una regina della musica avvezza alle trasgressioni e un rapper portano in gara una canzone che non ha proprio nulla né di trasgressivo né di hip-hop.
Non stiamo certamente dicendo che i suddetti cantanti abbiano volutamente tradito il proprio stile pur di piacere alle famiglie italiane. Però che nella scelta del brano ci abbiano pensato su due volte, sì. Mettiamola così: se uno fa musica elettronica, e nel cassetto ha due brani, uno dance e l’altro una ballata romantica al pianoforte e un testo che parla d’amore, alle selezioni per Sanremo è probabile che si presenti con quest’ultimo. Sono le conseguenze insormontabili di uno spettacolo pensato per piacere a dieci milioni di spettatori in media.
Quanto alla seconda domanda, la risposta definitiva non è delineabile con chiarezza nemmeno all’indomani della finale di sabato sera, neppure alla luce dei rispettivi posizionamenti nella classifica, quasi tutti al di fuori della top ten. Stabilire se la loro partecipazione al Festival sia riuscita a modificare la composizione del pubblico sanremese, procurando al programma nuovi spettatori tra coloro che sono soliti ricercare la musica per altri canali, è compito difficile da assolvere senza un riscontro dei dati Auditel. Sicuramente è lecito considerare quanto effettivamente ampia possa essere la loro fanbase: se escludessimo che lo zoccolo duro dei loro fan li abbia sostenuti solo perché non sono arrivati in pole position, commetteremmo la leggerezza di ignorare quale sia davvero la loro popolarità su vasta scala – detto in parole povere, se un cantante potenzialmente può ricevere tanti voti quanti sono i suoi ammiratori, è plausibile che Motta ne riceva di meno di Loredana Berté – e soprattutto di misconoscere la caratteristica più bella del Festival: quella di essere profondamente democratico.
A Sanremo, infatti, anche se la tua carriera è appena cominciata, puoi arrivare in alto lo stesso. Citavamo all’inizio l’esempio de Lo Stato Sociale, e che dire delle vittorie degli allora esordienti Gigliola Cinquetti, Gilda, i Jalisse e Annalisa Minetti? Chi annunciava l’abolizione della categoria dei giovani e la loro competizione diretta con i campioni come un’innovazione avrebbe più correttamente dovuto parlare di un ritorno al passato. A loro, da quest’anno, va ad aggiungersi Mahmood, il cui caso non è alieno da perplessità. Il ruolo della sua cerchia di seguaci nel decretarne la vittoria non è stato di per sé decisivo: arrivato allo scontro finale a tre, ha ottenuto appena il 14% dei voti da casa; insomma, se il giudizio finale fosse stato stabilito dal televoto, sarebbe arrivato terzo, dopo Ultimo e Il Volo. Questa triade, però, è perfetta per ipotizzare, se non proprio lo spettro dei gusti degli ascoltatori di tutta Italia, quantomeno quelli del pubblico sanremese: si va dai ragazzi del Volo, allineati a uno stile e una musicalità decisamente vecchia scuola, a Ultimo, che fa da ponte tra la tradizione melodica nostrana e le nuove generazioni, al primo classificato che strizza l’occhio all’urban contemporaneo e alla cultura araba. Un podio composito come non si vedeva da chissà quanto e che di fatto rappresenta la vera rivoluzione di questo Sanremo.
Andrea Vitale
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