Racconto: Un figlio al Padre – Danilo Cristian Runfolo
Non ero mai venuto qui, perlomeno in età adulta. Ho sempre considerato distante questa casa, fuori mano, fuori portata, qualche volta persino ostile. Forse l’ho considerata una tana per lupi, una trappola, un richiamo per le allodole, un luogo in cui illudersi di lavare coscienze sudicie e stenderle al sole come bianchissimi cenci.
Un lavasecco a gettoni.
Chissà se te ne sei mai accorto, se hai notato la mia assenza, se hai sperato in una visita, se hai mai provato a metterti in contatto con me, in un modo qualunque.
Se l’hai fatto, non me ne sono accorto; se invece non hai voluto farlo, io ti capisco. Tocca al figlio il dovere di andare a cercare suo Padre, e non certo quando ne ha bisogno, ma quando le cose vanno bene, le vele gonfie di vento a favore e la vita che, in bocca, lascia il suo bel sapore.
Ma oggi, lo sai, è aspro il gusto che assaporo sul palato, sono stanche le mie palpebre, ancora tremanti le mie gambe. Incertezza e paura sono le orme dei miei passi. Non smettono di starsi accanto.
L’universo che grandioso si espande mentre il cuore, misero, si restringe.
Sono colpevole, Padre, e ecco la mia resa: le ginocchia toccano terra, il capo chino, le spalle curve e, sopra, un peso che mi schiaccia. Immagino di vedere il pendolo e cerco il fulcro, l’unico punto fermo attorno al quale tutto si muove.
Se l’occhio potesse vedere i demoni che popolano l’universo, l’esistenza sarebbe impossibile1.
Io non lo so come si chiede il perdono, e non so neppure se serva a qualcosa, ma sento finalmente di essere pronto a sostenere il tuo sguardo. Non ho più nulla da perdere, né qualcosa da chiederti se non un cenno, uno qualunque, che metta a tacere il tormento, come un vento improvviso che a sera svanisce portandosi via ogni increspatura dalla superficie dell’acqua fino a farla piatta; uno specchio che riflette il cielo e l’orizzonte come cornice.
Mi guardi, ma non rispondi. Te ne stai lì, inchiodato a colpe non tue alle quali non mi sono mai interessato. Li ho spesi anch’io i miei trenta denari di umana miseria.
Che figlio sono, io? E poi, lo sono ancora davvero?
Sai, Padre, qualche volta credo pure di averti ringraziato, magari in maniera indiretta: per il mio successo, per la vita facile scivolata via come olio in un imbuto, per la modesta scalata sociale che mi ha portato ai vertici di un’azienda con la quale mi sono arricchito, impoverendomi. Credo di averti ringraziato dopo la prima promozione, col piglio del manager, dopo il primo rogito, dopo la prima macchina rossa.
Ti ringraziavo senza mai pensare a te, senza attribuirti il merito di ciò che con il mio lavoro e le mie abilità mi ero saputo conquistare, come squalo tra gli squali, come iena tra le iene. Facevo l’elemosina ai mendicanti per strada perché gli altri vedessero il mio gesto e in quello capissero la distanza che mi separava da loro. Guardavo il mio riflesso in mille specchi, tutti deformi, tutti opachi.
Ho violato mille volte i tuoi principi e, alla fine, anche Sonia si è stancata, preferendo mettere fine alla nostra unione di facciata, ai brindisi mondani, allo show delle apparenze. A quei “ti amo” buttati via come uno “ciao” a un conoscente, distrattamente incrociato per strada. Carezze aride solcavano il suo giovane viso, mentre con le stesse mani pensavo solo a prendere, a prendere ancora.
Per me è stato tutto molto semplice, anche dopo di lei: come cambiare auto, rimpiazzare una serratura difettosa, lubrificare una cerniera metallica, mettere via un abito sgualcito o un paio di mocassini fuori moda.
“Mario… sfumatura alta e pettinatura all’indietro. Cambio look”.
“Certo signore, starà benissimo!
Oggi, mi chiedo perché: perché è andata così.
Mi piace, sai, il profumo che respiro in casa tua, ne conservavo memoria da qualche parte, come l’orzo di mia madre, la colonia di mio nonno. Mi piace il silenzio, il senso di pace, quello stimolo forte a guardarsi dentro senza più occuparsi della materialità che si ha intorno.
Nuotare nel vuoto che vuoto non è, toccare con le dita quel nulla fatto di materia che i nostri limitati sensi non riescono a percepire.
Sono nudo, Padre, nudo come un verme e mi vedo strisciare su un terreno che non conosco, su un deserto che non ha nascondigli. Il sole picchia, la sabbia brucia. Scalo una duna per vederne affiorare un’altra, e poi un’altra, all’infinito. Le oasi sono solo illusioni.
Non voglio salvarmi, non più. Io voglio capire, voglio sentire la tua voce, una carezza che scappi dalla tua mano e mi carezzi la testa. Voglio che il tuo sguardo scenda qui, su questo dannato Malkuth, il Regno, la decima Sefirah. L’inferno.
Non ho voluto intermediari tra noi, sai che quelli non li ho mai stimati. Mi sembrano cagnolini col collare bianco.
E allora eccomi, sono pronto a consegnarmi a te:
Nel nome del Padre, del figlio e dello Spirito Santo.
Sono inginocchiato su questa panca, eppure, sono in croce esattamente come te. Lo sai, lo sai bene.
Non salvarmi, Padre: io non lo merito! Ma dammi, ti prego, la forza di capire, di cogliere i tratti e le sfumature di un disegno migliore di quanto, ai miei occhi, rappresenti quel maledetto scarabocchio che mi ha inghiottito.
Mimmo, mio padre, aveva solo sessantasei anni, una moglie che lo adorava e che lui aveva sempre amato profondamente. Una vita serena, in disparte, riservata e semplice, fatta di piccole gite fuori porta, di pesca, di serate con gli amici a fumare e bere buon vino. Lui credeva in te, ti pregava, forse anche per conto mio, non perdeva una domenica di messa, non aveva nemici. Mimmo era un sant’uomo.
Spiegami allora il perché. Una piccola utilitaria che aveva comprato anni prima, unico lusso concessosi dopo la meritata buonuscita.
Perché, Padre? Chi lo ha messo nella sua scia? Perché un camionista ubriaco, con la patente già ritirata, percorreva la sua stessa strada quella sera? Perché hai permesso che ciò accadesse? Una sbandata del Tir, che ha travolto la piccola utilitaria bianca schiacciandola contro il guardrail di quella dannata corsia autostradale mentre lui tornava da una passeggiata a Taormina.
Qual è la colpa che ha pagato quell’uomo, e io con lui, come una parte di me dentro quell’auto? A quale incarnazione risale?
Sono lacrime le mie… le vedi? Sono cocci di vetro, spine che m’incoronano la fronte.
Sono dolore e rabbia, fame e sete, pace e dannazione. Sono domande che attendono risposte, strade senza nomi, braccia senza mani, volti senza occhi. Demoni e fantasmi che danzano attorno a un fuoco che si alimenta da solo.
Ti ho portato una foto, una delle ultime scattate a mio figlio, Benedetto. L’incisivo è ancora rotto perché lui ha sempre avuto il terrore dei dentisti; gli ho concesso di rimandare quell’appuntamento, certo che prima o poi si sarebbe deciso ad affrontare quella piccola paura e rimettere a posto il sorriso. Dieci anni sono pochi per preoccuparsi di non piacere alle ragazze, di risultare goffo, addirittura brutto. Dieci anni sono pochi per un sacco di cose, a dire il vero.
Lui amava il nonno Mimmo, dopo la mia separazione da Sonia era più il tempo che passava con lui e mia madre che quello trascorso in casa con me. Un nonno è due volte padre. È una potenza matematica.
Sai, stamattina guardavo la villa, prima di salire in auto: il prato non si pota da mesi, rovi ed erbacce spuntano come funghi anche ai bordi della piscina, ridotta a una vasca piena di fluido scuro e melmoso. Lo scivolo azzurro, in cui corrono solo le foglie; la porta da calcio, con la rete sgonfia; la sedia a dondolo, che culla il silenzio e la noia; l’altalena rimasta a giocare col vento che non ride e non strilla. Non pronuncia il mio nome.
Dieci anni sono pochi per morire.
– Domani è sabato… finalmente! Non vedo l’ora. Notte, papà.
– Notte, tesoro mio.
Ho baciato la sua fronte, ho seguito quei piccoli passi scalzi su per le scale, fino in camera sua. Il sabato era per lui giorno di gioia, perché nonno Mimmo sarebbe venuto da noi a prenderlo e portarlo a Messina, fino a lunedì.
Mimmo in auto gli avrebbe raccontato un mare di storie, tutte vere, o quantomeno credibili: spionaggio militare, amici immaginari, alieni sumeri, segreti di straordinaria portata che se fossero stati rivelati al mondo avrebbero causato una guerra nucleare tra Stati Uniti e Russia. Nonno Mimmo era l’artefice della pace del mondo, e Benedetto lo sapeva bene, da perfetto ometto non insisteva mai per scoprire quali fossero quei segreti; lui ne era parzialmente a conoscenza e ciò gli bastava. Conosceva già le quattro parole del mago Levi: sapere, volere, osare e tacere. Un giorno avrebbe letto di esoterismo e occultismo, ne sono certo.
Viveva con gioia le ore di pesca trascorse in riva al mare, alle prime luci dell’alba.
– Però, anche se non dovrei dirtelo, papà, nonno Mimmo non pesca mai nulla. Non è un granché. Quando lancia la lenza, il mare sembra essere vuoto. Secondo me è troppo presto, e i pesci dormono ancora. Forse anche i pesci vanno a dormire alle dieci e mezza. Qualche volta anch’io dormivo ancora, seduto, mentre lo fissavo aspettando quello strappo alla canna che non arrivava mai.
– Ah, sì? E i pesci di cui parla sempre nonna Enza?
– Ma dai, papà… sveglia: dopo qualche ora il nonno si stanca, raccoglie tutto e andiamo fino a Pace; lì ci sono i pescatori, quelli bravi, quelli veri, con i secchi pieni di pesci. Il nonno li compra e fa finta di averli pescati lui. Non vuole fare brutta figura con la nonna. La ama ancora tanto e non vuole deluderla.
– Oh… capisco! E tu… non lo hai mai tradito, vero?
– Ma scherzi? Non lo farei mai. Il nonno è il mio migliore amico.
Ora, prendi le mie lacrime, Padre, accettale, sono tutto ciò che mi resta da offrirti. È la mia anima liquida che colando via da me ti chiede pietà.
In quella corsia autostradale ho perso il passato e il futuro. Ho perso mio padre, ho perso mio figlio.
A te rivolgo la mia ultima e unica preghiera: condannami pure, dammi la tua croce, la porto io; ma abbi pietà delle loro innocenti anime.
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Danilo Cristian Runfolo
[1] Talmud, Berakhoth,6 ⇑