ROMA: memoria e narrazione di un’infanzia messicana
Un campo lungo con una donna sperduta che vaga tra le baracche di una desolata periferia, un ingorgo automobilistico con macchine bloccate all’interno di un tunnel, una festa di capodanno con ricchi che bevono champagne nel bel mezzo di un incendio. No, non si tratta di un film di Fellini, bensì – a dispetto del titolo, che potrebbe effettivamente trarre in inganno – del film scritto e diretto da Alfonso Cuarón, ROMA, vincitore del Leone d’oro alla 75ª Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia e di ben tre statuette agli Oscar 2019 (Miglior regista, Miglior film straniero e Miglior fotografia).
Calle de Tepeji, 21
La ROMA in questione non è infatti la capitale neorealista della dolce vita ma la “colonia” di Città del Messico dove il regista è nato e cresciuto. La casa dell’infanzia, replicata fedelmente in studio – con tanto di targhetta con l’indirizzo esatto – è il palcoscenico di un vero e proprio amarcord in salsa messicana sul cui sfondo si agitano i tumulti sociali e politici che hanno sconvolto la capitale tra il 1970 e il 1971.
Si tratta di un maestoso ritratto familiare autobiografico il cui punto di vista è quello dell’infanzia del regista, ma il cui principale centro emotivo è quello di Cleo, la domestica indigena che si occupa della pulizia della casa e della cura dei bambini – la “Libo” alla quale il film è dedicato – vero e proprio perno attorno al quale ruota ogni sicurezza affettiva della famiglia. Cleo si muove con pudico candore tra le mura domestiche, incorniciata da lunghe carrellate orizzontali, divenendo la testimone dolente e passiva della transizione di una famiglia distrutta che sopravvive in un mondo alrettanto distrutto.
Memoria simbolica
Facendo a meno per la prima volta del fido collaboratore Emmanuel Lubezki alla fotografia, Cuarón fa esplodere la potenza estetica e soprattutto narrativa di un bianco e nero digitale che restituisce la dimensione di malinconica lontananza di un fantasmatico mondo deformato dai ricordi. Tutto giace oltre un velo, come quell’acqua, elemento purificatore e trasformativo, che nella sequenza iniziale scorre sul pavimento dell’androne e sulla cui superficie si rispecchia il riflesso “fluido” di un aereo.
Tutto si fa simbolo trasfigurato dalla memoria: lo stesso aereo che ricomparirà più volte nel cielo che porta lontano da casa il padre per non farlo ritornare mai più, la sua auto troppo ingombrante per poter essere parcheggiata in una sola manovra nel cortile interno della casa e che pesta gli escrementi esasperatamente moltiplicati e sovraesposti del cane Barras al quale è stato proibito di uscire dal cancello di accesso.
Un padre che sparisce come d’altronde scompare nel nulla anche il compagno di Cleo dopo aver appreso la notizia della gravidanza: uomini “sperduti nello spazio” come i due astronauti del film di John Strurges che la famiglia va a vedere al cinema, auto-citazione di un Gravity in bianco e nero d’altri tempi.
Una parabola al femminile
L’esperienza dell’abbandono diventa quindi elemento di unione tra la domestica e la madre rafforzando una solidarietà che travalica le differenze di classe. “Non importa quello che ti diranno. Noi donne siamo sempre sole” dice in una scena la madre dei bambini alla tata. ROMA diventa così un accorato omaggio a donne costrette a cavarsela da sole senza l’aiuto di nessuno, privo di retorica o facili compiacimenti.
Cleo, sedotta e abbandonata da Firmìn, partorirà da sola proprio durante gli scontri sanguinosi di El Halconazo e da sola affronterà il dolore della morte del neonato. E ancora da sola, pur non avendo mai imparato a nuotare, salverà i bambini dall’annegamento in un memorabile piano sequenza in cui il carrello della camera dalla spiaggia entra nel mare.
Il cerchio si chiude nella scena finale quando Cleo sale lungo la scala di ferro che porta sul terrazzo della casa e l’inquadratura compie finalmente un movimento verticale, immortalando quello stesso aereo dell’apertura che però non viene più visto attraverso il riflesso sulle mattonelle ma questa volta direttamente con un’inquadratura dal basso verso l’alto, verso quell’apertura di cielo alla quale Cleo è finalmente ascesa. Verso la pace assoluta dopo la turbolenta violenza suggerita dal mantra alla fine dei titoli di coda: «Shantih shantih shantih».
Valerio Ferrara