Il ritorno di Casa di foglie sulla 66th strada

Casa di foglie di Mark Z. DanielewskiUn libro che per qualsiasi bibliofilo è oggetto di ricerca e di ossessione, di speranza rinnovata e poi nuovamente delusa a ogni mercatino dell’usato. Stampato in Italia da Mondadori e subito sparito, in tanti ne hanno sentito parlare ma in pochi sono riusciti a leggerlo. La storia editoriale (o, meglio, l’avventura) è ormai entrata nella leggenda, al punto che averne una copia equivale a un trofeo oltre che a una ricchezza. Per fortuna esistono le biblioteche.


E per fortuna esiste 66thand2nd Editore – la casa editrice che tra le altre cose ci ha regalato Terminus radioso di Antoine Volodine – che dopo tante voci di corridoio ha infine confermato che lo riporterà nelle librerie nel 2019, permettendo a molti di scoprire un gioiello assurdo e caleidoscopico della letteratura contemporanea. Un libro che si apre con le parole: “Questo non è per te”. Non male.

Letteratura ergodica

Andiamo con ordine.

Casa di foglie è il libro per eccellenza della letteratura ergodica, è come vedere un corto sperimentale su carta. Ergodica? Sì, come l’I Ching, i libri combinatori di Queneau o i calligrammi di Apollinaire, che grazie alle poesie formano disegni e figure. Per certi versi si potrebbero includere nel genere anche alcuni librogame, quei romanzi a bivi che presentano alternative rendendo di fatto il lettore protagonista delle proprie azioni. Il termine fu coniato da Espen J. Aarseth nel suo testo Cybertext-Perspectives on Ergodic Literature, dal greco ergon, cioè “lavoro”, e hodos, “via”.

Ergodica è quella letteratura che chiede al lettore uno sforzo non solo a livello di contenuto, ma anche di forma. Il lettore deve sprofondare, sudare, soffocare, intrecciarsi e contorcersi. Deve scavare a mani nude il percorso e poi percorrerlo. È il surreale, il folle, il postmoderno spinto ai suoi più estremi confini e limiti.

È un testo che contiene in sé le regole per essere letto e decifrato.

Per inciso, poi, il padre di Danielewski è Tad Danielewski, regista polacco sperimentale. E sua sorella è l’artista musicale Poe, che a Casa di foglie ha dedicato anche un album d’inquietante bellezza intitolato Haunted. Non a caso, uno dei cardini di ciò che è ergodico è la crossmedialità, l’incrocio tra i generi.

The Navidson Record

Ma di che parla Casa di foglie? Ironia della sorta, rispetto a ciò di cui si parlava più su, di un film perduto e fatto circolare in copie clandestine. Il film è “The Navidson Record”. L’ha girato Will Navidson, un fotoreporter.

«Ognuna delle foto di Navidson rivela con quanta forza egli detestasse la distruzione nella vita umana e con quanta disperazione tentasse di conservarne la volatile bellezza».

Navidson ha acquistato una casa, si è trasferito assieme alla moglie Karen e ai due figli. Ma un giorno si è accorto di un dettaglio sconvolgente. All’interno, la casa è più grande che all’esterno. E sembra non esserci spiegazione. Inizia così il suo terrificante documentario. Da un particolare che sembra insignificante si giunge all’horror psicologico. Il fotografo esplora e fa esplorare la casa come uno speleologo. Noi però non sentiamo il suo racconto. Noi stiamo leggendo il saggio scritto dal vecchio Zampanò (esatto, come il personaggio felliniano), che ha dedicato la sua vita a scrivere del film di Navidson. Zampanò con i suoi piccoli occhi di ragno strizzati nell’oscurità della sua casa. Zampanò che somiglia a un Borges che ha letto di tutto e cita passi di libri a memoria. Ma non è finita a qui.

Troviamo note al testo che proseguono un’altra narrazione. Stavolta a parlare è Johnny Truant, un giovane che lavora presso un tatuatore e acquista la casa di Zampanò dopo la morte del vecchio. E trova i suoi fogli e i suoi appunti sparsi ovunque. Quella di Zampanò è una casa di foglie e di fogli.

Ognuno di loro viene risucchiato dagli incubi della stessa storia. Navidson. Zampanò che scrive. Truant che legge.

Tutti siamo nella casa. Tutti ne osserviamo i rumori e ne ascoltiamo il buio.

Ognuno di loro lentamente impazzisce. Ognuno di loro cerca «un avamposto di difesa contro la transitorietà del mondo».

Lo spazio si fa umano. La casa respira.

La differenza tra vero e falso si fa sempre più sottile e inverosimile. “The Navidson record” è esistito davvero? È una storia vera? È, a tratti, uno snuff movie? È un falso documentario, un mockumentary? Uno scherzo, forse?

E soprattutto: queste domande hanno più importanza?

Un valzer grottesco

Casa di foglie lascia storditi, spaventati e confusi. Eppure è una delle più interessanti esperienze letterarie che si possano provare.

Forse è un libro che va letto saltando e correndo da una parte all’altra. Ci si arrampica sull’orrore di testi in braille, frasi a testa in giù, quadrati di testo, spartiti musicali, periodi obliqui, linee, punti, figure, disegni, schizzi, fotografie, deliri, caratteri differenti, sottolineature e parole barrate. Note, sottonote, personaggi veri e inventati. È una specie di valzer grottesco.

È il traballante linguaggio dell’erotismo e dell’amore a mascherare il dolore e il vuoto. È l’arrivare a sperare che un mostro ci sia sul serio, da qualche parte, perché altrimenti si è soli davvero. Se un mostro non c’è significa che tutta quella paura è vera e inspiegata, è pragmatica, non è un qualcosa che si può allontanare lasciandola nella bolla consolatoria del surreale. È bello, avere un mostro da incolpare.

Altrimenti quella paura riguarda davvero ognuno di loro. Ognuno di noi.

Altrimenti vuol dire che i corridoi percorsi un migliaio di volte possono farsi all’improvviso più lunghi. Le ombre più scure. Le certezze crollare.

Le maschere sciogliersi rivelando il nostro volto di creature identiche e terrificanti.

Vuol dire che i nomi non serviranno più a salvarci.

«E allora inizieranno gli incubi».

Valeria Lattanzio

Grado Zero è una rivista culturale online, nata dall’incontro di menti giovani. Si occupa di cultura e contemporaneità, con particolare attenzione al mondo della letteratura e del cinema.

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