Racconto: Il gatto – Gabriele Cavallini
“Questa è l’ultima” gli disse con voce impastata, inclinando il bicchiere di lato per capire quanto mancasse ancora. L’amico, dall’altro lato del tavolo, lo guardò con un sorriso e poi commentò con un laconico “Può darsi”. Il tavolo bagnato si muoveva ogni volta che ci si appoggiavano sopra, facendo tentennare quel labirinto di bicchieri.
“Com’è andato il viaggio?” gli chiese a un tratto.
“Bene. Molto bene” rispose l’amico facendo cenno di sì con la testa.
“Ma dove sei stato?”.
“In India”.
“Di preciso?”.
“Oh oh. Guarda quella” fece l’amico sottovoce, inclinando la testa verso sinistra e sgranando gli occhi. Una bionda con un vestitino rosso e tacchi alti era appena passata vicino a loro. La guardò per un tempo indefinibile, con gli occhi socchiusi e quel sorrisino stupido da ubriaco. Lei se ne accorse, perché gli lanciò un’occhiataccia penetrante, di quelle che stanno a significare smettila di fissarmi.
“Insomma?”.
“Calcutta”.
“E com’è?”.
“Calcutta, molto bella. Un po’ caotica e sporca, come tutta l’India” gli rispose l’amico.
“Sporca?”.
“Sì, animali per la strada che cagano ovunque, la gente scalza. Ed era veramente piena di gente” disse. “Sono stato in un tempio fuori città poi”.
“Tipo buddhista?” .
“Sì, era pieno di monaci, tutti vestiti uguali. Non facevano che pregare”.
“E com’è stato?”.
“Ah, non ho mica pregato”.
“Macché pregare, il tempio!”.
“Tranquillo. Silenzioso, tipo il contrario di Calcutta” notò. “La guida ci ha spiegato della loro religione, reincarnazione, il Nirvana e roba simile”.
“La reincarnazione?” disse stupito.
“Senti qua: loro credono che uno quando muore, non è che muore e basta, stop. Non va nemmeno in paradiso o posti simili. Diventa qualcos’altro, si reincarna insomma” cercò di spiegargli alla meglio.
“Ma qualcos’altro cosa? Un sasso anche?”.
“Non lo so, può darsi. Più che altro una persona o un animale. Per diventare un sasso dovevi essere stato proprio stronzo da vivo.” gli fece notare con un risolino marcio.
Finiti i drink, si alzò con fare incerto e si diresse verso la macchina, lasciando l’amico a smaltire la sbornia. Si sentiva leggermente su di giri. Tagliava le curve e procedeva ad alta velocità fregandosene di essere ubriaco. Lungo un tornante si distrasse cercando di cambiare canzone alla radio, e quando guardò verso la strada vide che la macchina stava procedendo dritta verso un punto senza guardrail, oltre il quale stava un dirupo. Gli sembrò di rivivere la scena di quella sera. Inchiodò con violenza e nemmeno si accorse di aver chiuso gli occhi. Quando li riaprì la macchina era ferma sul bordo della strada e dal finestrino poteva vedere la profondità del buio che stava sotto di lui. Aveva sperato di precipitare di sotto, lasciandosi inghiottire, ma anche stavolta era stato salvato.
Arrivato a casa parcheggiò lungo la strada e scese dalla macchina. Gli caddero le chiavi. Se ne accorse soltanto per il tintinnio prodotto contro l’asfalto. Le raccolse e si incamminò lungo il vialetto. Scivolò sul manto di foglie arancioni e dovette reggersi al muro per non cadere a terra. Poi, arrivato di fronte alla porta di legno, infilò la chiave nella serratura ed entrò, ridacchiando e sbuffando.
Accese le luci e lo accolse un ottimo tepore. Lanciò le chiavi dentro il ciottolo all’ingresso e fece incredibilmente centro. Ridacchiò rumorosamente, sentendosi in ottima forma, improvvisando un balletto della vittoria. Posò il giacchetto nell’attaccapanni sulla sua destra. Si sentiva ancora il suo odore nella sciarpa di lana grigia di cui non aveva saputo liberarsi. Era stato l’ultimo regalo che le aveva fatto, prima di quella sera.
Girò a sinistra dopo il corridoio e si diresse in cucina. Prese la bottiglia dell’acqua, se la portò alle labbra e bevve grandi sorsate rumorosamente. Si voltò verso il tavolo e notò che il gatto se ne stava seduto li sopra, con la testa inclinata a fissarlo.
“Ciao Micio” gli fece l’uomo con un occhiolino. Posò l’acqua e andò in bagno. Si tolse le scarpe, la cintura e i pantaloni, rimanendo in mutande, calzini e camicia. Pisciò per un minuto buono, ruggendo di gioia per averla trattenuta fino a quel momento. Poi si diresse verso lo specchio. Era in ottima forma, proprio in ottima forma. L’alcol non lo aveva rimbecillito per niente, stava bene. Si lavò i denti continuando a osservare il suo riflesso nello specchio. Sputò il dentifricio, si sciacquò la bocca e tornò in cucina seminudo.
“Sei di nuovo ubriaco” sentì dire. Si affacciò verso l’ingresso e non vide nessuno. Quindi ruotò intorno al tavolo, superò l’angolo cottura e aprì il frigorifero. Niente. Poi si girò incontrando lo sguardo indagatore del gatto.
“Sei ubriaco” gli disse. L’uomo lo guardò incerto. Superò il gatto e tornò in bagno. Accese la luce e si guardò nuovamente allo specchio. Aveva gli occhi arrossati e incavati dentro due occhiaie profonde. Si sentiva la bocca secca e le labbra screpolate dal freddo. Alzò la tavoletta del bagno, si mise due dita in gola e vomitò. Aveva un colore rossastro, l’odore penetrante e rancido. Rimase sul cesso per cinque minuti buoni ad aspettare i conati, sputò un paio di volte e infine si sciacquò il viso con acqua gelida. Lavò nuovamente i denti sporchi, si asciugò per bene e tornò in cucina. Girò intorno al tavolo e rimase a fissare il gatto. Aveva gli occhi verdi e taglienti, il pelo liscio e nero, e se ne stava nella stessa posa di quando era entrato.
“Ora stai meglio” gli fece tutto contento, leccandosi una zampa. L’uomo rimase pietrificato, con le mani appoggiate al tavolo, fissandolo immobile. Il gatto si alzò a quattro zampe, si stiracchiò e gli si strusciò contro l’avambraccio.
“Vieni a letto, sei stanco” gli disse, balzando giù dal tavolo e dirigendosi verso la camera. L’uomo lo vide sparire dietro la porta. Allora alzò le mani, andò in camera e accese la luce. Il gatto se ne stava sul letto, immobile. L’uomo si avvicinò e si sedette sul bordo del letto.
“Dormi” sentì dire dietro di sé. Allora si sistemò a letto in maniera arruffata, mettendo il cuscino in posizione inclinata per vedere di fronte a sé. Il gatto si spostò sul suo petto e con fare rapido gli rimboccò le coperte con le zampe posteriori.
“Chi sei?” gli chiese infine l’uomo.
“Sono Micio, il tuo gatto.” rispose il felino.
“Mi dispiace” disse l’uomo portandosi le mani al volto e scoppiando a piangere, “Diventerò un sasso”.
“Non diventerai un sasso. E ti sarò sempre vicina” rispose con dolcezza il gatto, mentre i suoi baffi vibravano.
“Adesso riposati” gli sussurrò.
L’uomo spense la luce, sistemò il cuscino, si girò di fianco e si coricò.
Si svegliò con un terribile mal di testa e la bocca incollata. La luce del giorno, passando per la tenda azzurrognola, illuminava la stanza di un colore marino. Gli frizzavano gli occhi. Alzò la testa e vide che il gatto era disteso in un angolo a fissarlo. L’uomo si aspettava che dicesse qualcosa. Poi, a un tratto, sentì uno schianto contro la finestra della camera. Si alzò, e scostando le tende guardò il giardino. Tre piume volteggiavano per aria, descrivendo un movimento elicoidale. Nell’erba, un uccellino giaceva morto stecchito. L’uomo rimase a fissare quella scena finché le piume non caddero a terra, pensando che magari sarebbe successo qualcosa. Quando si voltò, vide che il gatto era sparito.
Gabriele Cavallini