Bandersnatch e lo specchio scuro della metatestualità
Se è possibile rintracciare un filo conduttore all’interno di Black Mirror questo è sicuramente costituito dall’invito a interrogarci sulle nostre più sicure e placide speranze nei confronti delle nuove tecnologie e, di pari, sulle conseguenze che queste possono apportare alla nostra esistenza. Bandersnatch, l’ultimo titolo del franchise di Black Mirror si allinea perfettamente alla filosofia della serie tv inglese, e lo fa uscendo dalla comunicazione diretta di tipo narrativo per adottare le vesti della metanarrazione: trattandosi di un film interattivo, è lo spettatore da casa a decidere le sorti del protagonista che, guarda caso, è un programmatore di videogiochi interattivi. La scelta non ha mancato di suscitare dubbi e perplessità – per non parlare di espliciti scontenti – nell’agone del web. Proprio partendo dalla delucidazione di alcune di queste critiche si possono evidenziare i nuclei tematici più interessanti di questo nuovo prodotto targato Netflix.
Dedalus, ovvero il cortocircuito dell’interazione
Una delle questioni più ricorrenti è quella inerente al numero dei finali: uno, cinque, sette, nessuno? Qualsiasi sia la risposta che siamo disposti a dare, a emergere è la medesima esigenza: trovare un orizzonte di sensatezza all’interno dell’esperienza che stiamo facendo. Il che significa ricercare un ordine che ci conforti nella nostra posizione di spettatori. Un sentimento che attraversa trasversalmente il nostro abitare il mondo, basti pensare al comune approccio che abbiamo con tanta arte contemporanea – e al suo disturbante giocare con noi, spesso senza darci coordinate di senso per orientare la nostra interpretazione – o con quei film e romanzi che terminano con un finale aperto. Pur trattandosi di forme artistiche diverse, quel senso di insoddisfazione che ne può derivare è sempre dovuto alla sopracitata esigenza, la quale a sua volta richiama e attesta una specifica logica del potere: io, in quanto soggetto, voglio mantenere il controllo di ciò che mi accade, e per fare ciò posso ricorrere a tutta una serie di apparati che mi permettono di disporre dell’oggetto che incontro.
Quello che fa Bandersnatch è esattamente questo: provocarci tanto nella nostra condizione di liberi consumatori – che dispongono autonomamente delle proprie scelte in un’atmosfera di presunta e illimitata libertà -, quanto nella nostra posizione di spettatori per invitarci a uscire dall’immediatezza della visione e giungere a questionarla più approfonditamente. E che ciò avvenga attraverso un episodio interattivo non è affatto casuale.
Ci troviamo investiti del potere e della responsabilità di decidere delle sorti di Stefan, rivestendo la medesima posizione di chi si trova a giocare al videogame programmato dal giovane protagonista. Tuttavia, nel corso dell’episodio, ci troviamo sorpresi a condividerne anche le stesse limitazioni e frustrazioni.
Quella che inizialmente si presentava come una distesa di illimitate possibilità di azioni si rivela infatti essere un circuito chiuso – peraltro piuttosto ristretto – dal quale non ci è dato uscire. Che si tratti di mini finali che sopraggiungono a interrompere la vicenda costringendoci a tornare sui nostri passi, oppure di una ridondante ricorsività che erode il senso stesso della storia, l’effetto rimane immutato: mostrare la vacuità di quello che credevamo essere il nostro libero arbitrio – e, di pari, della stessa trama narrativa dell’episodio. Dare una controllata e limitata gamma di scelte; offrire quindi non la libertà, ma la sua parvenza, ecco la chiave che permette al gioco di funzionare. Un caso se sia lo stesso Stefan a dircelo, peraltro nell’unico scenario in cui riesce a programmare una versione del gioco che ottiene tutte e cinque le stelle da parte della critica? La situazione risulta allora ribaltata: come noi giochiamo con le scelte del protagonista, così qualcuno gioca con noi, offrendoci misurati assaggi di libertà, ma sostanzialmente inchiodandoci in un’architettura già definita e ineludibile.
Charlie Brooker è questo qualcuno, ovvero l’unico sceneggiatore di Bandersnatch, l’unico panopticon che dispone dell’intero organigramma dei possibilia.
Dire un contenuto, mostrare un limite
La storia finisce allora per non esistere più o, meglio, implodere mediante il suo stesso sviluppo: pura forma che consuma ogni contenuto ai fini della propria esposizione, della messa in luce del proprio ordito. In questo episodio molto viene mostrato, mentre poco è detto – e quel poco rivela peraltro la sua futilità, la sua contingenza. La trama è di per sé molto semplice, e si fa presto ad accorgersi di come le diverse modificazioni del suo ordine finiscano per non alterarne la sua sostanziale struttura.
Bandersnatch iscrive con la sua espressione un perimetro, e così facendo ci mostra la gabbia all’interno della quale siamo racchiusi, gabbia che, lungi dall’essere un limite negativo, ha invece a che fare con le stesse capacità espressive dell’opera d’arte. Contemporaneamente sono mostrati i nostri stessi desideri, connessi alla voyeuristica fruizione di una storia per la quale riusciamo a provare una morbosa curiosità direttamente proporzionale solo al cinico distacco nei confronti del protagonista, marionetta alla quale possiamo far compiere le peggiori azioni con quell’irresponsabilità che solo un videogame può generare. E per fare ciò quest’ultimo episodio dell’universo Black Mirror si avvale di quel riflesso oscuro costituito da un’interattività che ci viene rivoltata contro, e che perciò inevitabilmente ci fa sentire a disagio, sotto inchiesta. I riflettori si spostano dalla vicenda narrata a noi in quanto spettatori, alla questione intorno allo statuto di chi osserva e alla posizione privilegiata qui posta in gioco. Vedere significa potere: ce lo ha mostrato tanto Jeremy Bentham quanto Michel Foucault; tanto il mito di Gige quanto l’orwelliano 1984.
Quando finalmente giungiamo ai titoli di coda – e Netflix ci avverte che sta per iniziare la riproduzione di un altro episodio di Black Mirror – ci troviamo combattuti da sentimenti contrastanti: forse un po’ euforici, probabilmente delusi, inappagati, estenuati da così tante ore di visione. Ma sicuramente a rimanere sono gli interrogativi, le provocazioni prive di risposte definitive che ci porteremo dietro anche dopo che lo schermo sarà diventato per l’ultima volta nero.
Davide Cherubini