L’ultima produzione targata The Zen Circus (“Vivi si muore 1999-2019”) è un’occasione per ripercorrere la carriera di una band atipica – per gli attuali standard qualitativi del mercato musicale italiano, che crea personaggi dalle trasmissioni televisive prima ancora di tastarne le attitudini live – e in costante evoluzione artistica.
Una parola facilmente accostabile agli Zen è: gavetta. La decina di registrazioni in studio non deve fuorviare: la storia della band pisana è intrisa di tour pressoché infiniti, dove gli album sembrano quasi una scusa per evitare di scendere dal palcoscenico.
Durante quelle centinaia di concerti, si è instaurato un particolare patto tra la band e il pubblico, un rapporto dare-avere proficuo per entrambe le parti: gli spettatori assimilano la carica degli Zen Circus, e la band a forza di confrontarsi ogni sera con migliaia di corpi, migliaia di storie, ha finito col farsi portavoce di quei disagi e quelle mute richieste in cerca delle parole adatte per esplodere.
In vent’anni di carriera, gli Zen Circus sono diventati un blob che assimila le sensazioni del pubblico, dimostrandosi creatura viva in grado di passare col tempo dalla rabbia di canzoni come Fino a spaccarti due o tre denti alla poetica messa a nudo delle fragilità famigliari di Il fuoco in una stanza (“Stiamo diventando i nostri genitori: Che cosa dicono di noi le voci nei tuoi corridoi?”)
Uno dei maggiori meriti degli Zen Circus è di aver scardinato la stanza del vuoto.
Dopo gli anni ’70 – l’età dell’oro per i cantautori italiani – è infatti mancato il ricambio generazionale, e la lacuna lasciata dai cantastorie (in fondo cos’è un cantastorie se non uno scrittore intonato?) si è andata ingigantendo dopo l’avvento degli sciagurati talent show, fucine di artisti perlopiù intercambiabili e standardizzati verso un livello qualitativamente basso, in termini di sostanza.
La stanza del vuoto (vuoto di argomenti trattati, quando paradossalmente negli ultimi anni il rapido mutamento sociale sta fornendo, a livello europeo e internazionale, decine di spunti di riflessione) è stata violata dagli Zen Circus, che di album in album hanno alzato il tasso qualitativo dei loro testi per dare voce al disagio strisciante, mostrandolo nella sua complessità senza mai giudicarlo.
I testi degli Zen Circus sono divenuti col tempo dei dipinti, delle microstorie intrise di malinconia attiva. Storie di lotta, di amore, di cicatrici che non guariscono, di qualcosa che sfugge, di vita intesa come orizzonte. C’è la critica più feroce verso chi vive senza grattare la superficie delle sensazioni (Andate tutti affanculo, L’egoista, I qualunquisti), la disillusione di Non voglio ballare (“La rivolta ormai è un fatto personale”), la tristezza degli anni che sfuggono in Postumia e in quella che potrebbe essere definitiva la miglior canzone italiana del decennio, una gemma intitolata L’anima non conta, fino a toccare i drammi famigliari, quelli fatti di parole non dette, gesti non compiuti se non quando oramai hanno perso valenza, raccontata per esempio in Catene.
Mia madre ha fatto un sogno dove questo signore
le diceva di parlarmi prima di morire
così oggi mi ha scritto “Anche se non ci credi ancora
tu sei stato il mio più bel regalo di Natale.”
Avrei voluto dirle, avrei voluto urlare
che l’ho sempre saputo nonostante il dolore
anche quando tornava distrutta da lavorare
anche quando ci urlavamo contro tutto il male.
Se l’amore non so darlo, se non ne so parlare
dentro una chitarra l’ho provato a immaginare
(“Catene”)
La raccolta “Vivi si muore 1999-2019” non è quindi da intendersi come un cerchio che si chiude, quanto piuttosto un prisma che riflette possibili punti di partenza.
Il nuovo inedito L’amore è una dittatura sembra voler suggerire uno degli argomenti che la band affronterà nel futuro prossimo: l’importanza di non lasciarci trasportare passivamente dagli attuali eventi – politici e sociali – ma di continuare a combattere, ostentando la nostra unicità, sporcandoci il più possibile di vita, in attesa.
Loro, nel frattempo, continueranno a suonare.
Per noi, con noi.
E speri ancora che qualcuno sia lì fuori ad aspettarti
non per chiederti dei soldi
neanche per derubarti
non per venderti la droga
e soffiarti il posto di lavoro
ma per urlarti in faccia
che sei l’unica, sei il solo
(“L’amore è una dittatura”)
Luca Pegoraro
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