Jack ha un nome da serial killer. È narcisista, schivo, disturbato, di poche parole, apatico e senza scrupoli. Avete presente quei tipi alti, piuttosto muscolosi ma senza darlo troppo a vedere, la faccia tutto sommato pulita, eppure con qualcosa di strano e inquietante nello sguardo? Ecco, questo è Jack: un serial killer per l’appunto. Di quelli che si incontrano spesso se si frequenta il cinema la sera tardi. Jack è anche, con un’importanza accessoria, un ingegnere che preferirebbe essere architetto. Vuole costruire una casa e fallisce molti tentativi, poi se lo dimentica. Quando finalmente ci riuscirà sarà grazie a Verge che gli darà un aiuto fondamentale per il suo progetto: gli ricorderà di farlo.
Nel buio completo dello schermo Jack (alias Matt Dillon) confessa a un misterioso interlocutore che chiama Verge (Bruno Ganz) i cinque “incidenti” che segmentano il film come è ormai consuetudine per il suo autore, Lars von Trier.
Il primo riesce quasi a sembrarlo, un incidente: il nostro protagonista ha ancora un grugno ordinario e mansueto, “troppo imbranato per uccidere qualcuno” dice la sua prima vittima, un secondo prima di ricevere il cric in faccia. Questa irrisione viaggia su un tragitto psicologico patriarcale e spinge Jack a infuriarsi quando toccato nell’orgoglio. Da quel momento in poi, la sua espressione cambierà per sempre.
Gli altri episodi non sono affatto fortuiti né inattesi. Non sono accidentali ma allestiti. Ognuno di essi viene mostrato minuziosamente nel suo svolgersi e nelle sua inumana singolarità, frutto dell’invettiva di Jack. Non ci sono tagli, non ci sono salti. Questo è lo spettacolo, non ci si può sbagliare. Il primo omicidio è avvenuto dopo sette minuti, lo spettatore è stato avvisato fin da subito di mettere da parte le emozioni e osservare l’opera d’arte erigersi.
Jack è affetto da disturbo ossessivo compulsivo verso la pulizia, il che rischia di pregiudicare la sua brillante carriera, all’inizio. Si renderà poi conto che questi omicidi/opere d’arte non solo gli generano piacere, ma producono un incantevole sollievo anche per questo disturbo.
Questo è Jack: un uomo che cammina in una strada illuminata da lampioni, quando si trova perpendicolare alla luce di un lampione uccide. L’ombra davanti a lui cresce: è il suo piacere. Ma avvicinandosi al lampione successivo, dietro di lui, inizia ad affacciarsi il dolore fino a quando il piacere svanisce e il dolore è più nero e intenso. Poi raggiunge il lampione successivo, e uccide.
Pertanto The House that Jack Built sembra offrirsi come apologia della violenza. Celebrazione della catarsi violenta. Già Kubrick nella sua Odissea spaziale presentava la violenza come un’ urgenza archetipica. L’umanizzazione del primate coincide con la nascita del sentimento di violenza. Violenza come pensiero primigenio.
In realtà von Trier non vuole porsi interrogativi sul sentimento né affrontare un’analisi critica su questi impulsi. La violenza viene ritualizzata e diventa un mezzo come un altro. Consci che ciascun incontro sarà violenza, che ogni personaggio eccetto Jack e Verge sta per morire ci autoimmunizziamo evitando di empatizzare con chicchessia. In questo modo – deresponsabilizzati sosterrebbe Hannah Arendt – scopriamo l’indifferenza e rimaniamo a fissare il male, pur nella sua banalità, farsi arte, il sangue farsi pittura, le intimidazioni farsi sonetto e le grida di paura, musica. Difatti la versione tagliata e doppiata che alcune sale offrono, nondimeno vietata ai minori di 18 anni, distorce quella che è la vera natura del film.
Lars von Trier ammette il suo narcisismo. Jack – che personifica il regista – ha sete di fame ed è convinto di rivelare al suo Virgilio un’avventura mai sentita, ma Verge – antropomorfo del cinema – gli dirà che «non può raccontare nulla che non abbia già sentito». Infatti il girone dell’inferno nel quale finirà non sarà l’ultimo, ma due piani sopra. C’è anche chi ha fatto di peggio.
Come ogni volta von Trier provoca, scandalizza e crea polemica. Questo non ci interessa più. La casa di Jack è un film coraggioso ed egemonico, con delle vette di altissimo valore artistico. Ma nemmeno questo ci interessa più, perché risente di una fragilità strutturale che è l’ambizione sconfinata del suo regista. In un’intervista ai Cahiers du cinéma affermava che lui realizza film con il proposito di «riempire i buchi» che sono rimasti vuoti nella storia del cinema. Molto affascinante, senza dubbio, ma dopo questo film viene da pensare che gli unici buchi siano situati nella regione dell’eccesso, e non è così.
Che lo svolgersi del film sia sistematico e prevedibile non è importante. Lars von Trier vuole solo dipingere la barca di Dante di Delacroix, scrivere le poesie di Blake sull’agnello e la tigre, suonare con le mani di Glenn Gould. Questo va bene. Ma la rappresentazione finale che offre dell’inferno è kitsch, e questo per un maestro dell’anticonformismo come il regista danese, invece, non va bene.
Una volta ripulita dalle macchie di sangue, la mente trattiene un’opera seducente, un interpretazione straordinaria di Matt Dillon e un personaggio che cammina senza posa da un lampione all’altro nel continuo oscillare fra piacere e dolore.
Feeling so gay, feeling gay?
Bring so much pain?
Fabrizio Sani
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