Simone Consorti è un poeta, in La pioggia a Cracovia (Ensemble), romanzo breve, scritto con eleganza e precisione, trapela una malinconica ironia, un sarcasmo aspro e tetro, l’attenzione per un vissuto invisibile. «Oggi ne ho scattato uno che teneva sul petto un cartone marrone, come se fosse un bersaglio, mentre una ragazza tutta in tiro, con una busta della stessa forma e colore, gli tagliava di corsa la strada».
Il Vagabondo guarda la vita degli altri attraverso le pozzanghere, il Fotografo attraverso l’obiettivo, entrambi sfuggono all’ansia di fare i conti con sé stessi, con gli altri, con il tempo e con la morte, in questa ossessione fragile dello sguardo.
«Il fatto è che esistono due tipi di facce per strada, perché alcuni barboni, nonostante tutto, fanno ogni cosa in gruppo. Magari se la prendono per questioni come un sorso di bottiglia, ma hanno comunque bisogno di dividerla, per poi litigare e fare la pace. Sono come i ragazzi della via Pàl all’ennesima potenza, capaci di trasformare il possesso di una panchina in una guerra».
Per il Vagabondo esistono dei luoghi essenziali, luoghi animici, e spesso si tratta di panchine, quella in cui incontra Padre Jakub, per esempio, personaggio singolare, capace di ipnotizzare come un musicista.
«Quando sento il calore delle sue dita, avverto di essere un tasto raggiunto dalla propria nota. E allora anche quest’altra panchina per me diventa un organo. Se qui non ci fosse già un santo, il santo sarebbe lui, perché sta rinunciando a dei viaggi e alla carriera, pur di continuare a tenerci ferma la testa; inoltre va in giro con un ombrello tutto bucherellato, che al massimo gli serve quando non ha gli stivali ed è tutto un fango, lui immancabilmente viene.A volte non parla, tra noi non c’è nessun obbligo, ma spesso ripete quella storia del figliol prodigo».
Il Fotografo per il suo progetto Svaniti fotografa il Vagabondo, gli parla e in un certo senso lo ammira, finisce per diventare il suo unico ascoltatore. Se per il Fotografo c’è Bianca, per il Vagabondo c’è Chiara.
«Poi ha iniziato a farmi domande a raffica: perché proprio lui, se mi aveva mandato qualcuno, se c’entravo qualcosa con una certa Chiara, se di secondo mestiere facevo la guardia, se avevo parenti, vicini o lontani, in Campania, e dove vivevo precisamente in Italia».
Il Vagabondo sembra conoscere bene la fotografia, usa termini tecnici e trova che le persone ritratte dal Fotografo figurino come ombre.
Forse ogni personaggio de La pioggia a Cracovia è un’ombra. Specchio l’uno dell’altro e l’uno nell’altro, come dipinti cancellati da gocce d’acqua, vetri smerigliati, fotografie sovraesposte, le persone vanno via via svanendo insieme al tempo che rimane per assemblare i cocci delle loro sconfitte, di ciò che hanno lasciato andare o di ciò che non riescono in alcun modo a lasciare andare, agganciati a un’idea di esistenza che resta ideale come un’opera d’arte e non si compie mai, sospesa al filo invisibile dell’esistere e dell’errare.
C’è un segreto, il mistero sotteso nella vita di chiunque, che ci rende tutti fuggitivi e vagabondi, svaniti, in questo segreto ognuno di noi c’era una volta e va via via svanendo, nello svanire diviene altro da sé, si smaterializza nel tentativo di comprendere, di fermare in uno scatto il flusso indistinto, le parole che non riescono a contenere i sentimenti, i dinieghi, l’anelito a un’ambizione ormai bruciata. Siamo pozzanghere, scatti sovraesposti, innamorati pazzi di un irraggiungibile sogno, della Dama con l’ermellino, dei versi di una poesia che non comprenderemo mai, siamo la pioggia e nella pioggia aspettiamo di scioglierci sperando che un pezzo di noi smetta di morire se il mondo smette di vederci.
Ilaria Palomba
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