Creare un canale dedicato pressocchè totalmente al restauro d’auto è forse un segno dei tempi, il risultato di un cambiamento significativo nell’immaginario occidentale.
Motor Trend – canale tematico di Discovery Italia – ha iniziato le trasmissioni il 29 aprile 2018 e, se guardate al palinsesto, si respira un clima di rovinosa nostalgia, in cui a fare da protagonista è l’automobile. Naturalmente il capostipite di questo tipo di serial – Affari a quattro ruote – fa la parte del leone, sia con le ennesime seguitissime repliche che con la nuova stagione.
Affari a quattro ruote ha debuttato in Gran Bretagna nel 2003, con una produzione inglese a basso costo. Mike Brewer va a caccia di auto in pessime condizioni, mentre Edd China si occupa di restaurarle. Il successo dei due soci è planetario, tanto che l’americana Velocity Channel ha fiutato l’affare, sborsando fior di quattrini per acquistare il format. Edd all’inizio ha storto un po’ il naso, tanto da rinunciare poi all’impresa nel 2017. Gli americani volevano tagliare i costi. Pare che la parte “rognosa” fosse quella in officina, dove Edd cura le vecchie auto come fossero figli, coccolandole, vezzeggiandole, eseguendo riparazioni che per noi a casa sviluppano la tensione di un intervento a cuore aperto.
Ma cosa c’è di tanto affascinante in un canale d’auto vintage? Forse è dovuto al fatto che il parco circolante europeo continua a invecchiare? L’età media in Italia a fine 2017 si aggira sugli 11 anni, ma dubito che ciò sia dovuto a una passione “necrofila”. Probabilmente si tratta della perdita di fascino per un oggetto che appartiene a un mondo morente. Sembra lontano il tempo in cui l’auto era il simbolo di un progresso avvertito a portata di tasca non solo per chi ambiva a una seicento per la famiglia, ma anche per chi era disposto a investire su auto da sogno, in cui la parola chiave è “sogno”.
Dal 1946 agli inizi degli anni Sessanta, l’Italia passa da un’economia principalmente agricola a potenza economica, con picchi di crescita tra il 1959 e il 1962 mai al di sotto del 5,8%. Un industriale tra i tanti, prima nel campo delle macchine agricole poi dei bruciatori, partecipò all’exploit inaugurando un marchio automobilistico d’eccellenza assoluta. Nel settimo episodio della decima stagione infatti, Eddie è al settimo cielo: «Finalmente abbiamo in officina un vero pezzo grosso». Si tratta nientemeno che di una Lamborghini Urraco. La storia di Ferruccio Lamborghini è espressione del genio italiano che sulla spinta del boom realizza un sogno impossibile: costruire pressocché da zero auto innovative.
Nel maggio 1963 – con i ricavi della Lamborghini Trattori – acquista un terreno a Sant’Agata Bolognese, dove costituisce la Società Automobili Ferruccio Lamborghini. Il suo obiettivo è porsi nello stesso segmento di Alfa, Lancia, Mercedes, Jaguar e naturalmente Maserati e Ferrari. A solo sei mesi dalla fondazione espone al Salone di Torino la 350 GT, il cui avviamento produttivo è affidato agli allora giovanissimi (cinquant’anni in due) Giampaolo Dallara e Giampaolo Stanzani, ingegneri destinati a grandi successi. Chi oggi affiderebbe a due “ragazzini”, non dico una produzione industriale, ma il servizio catering per il compleanno dei figli?
Eddie si avvicina alla coupé a 4 posti da due litri e mezzo con l’emozione di un innamorato al primo appuntamento. Avendo freni bloccati e cinghia pericolosamente lasca, è stata trasportata dalla Polonia con un grosso punto interrogativo. Non è stato infatti possibile provarla, cosa che però ha avuto effetto di ribasso sul prezzo. Eddie la spinge in officina come se si trattasse di un genitore in coma. Si tratta di portarlo a un dolce risveglio, di riconoscere proprio alle sue stanche “gomme” l’eredità lasciata a noi, figli stanchi di un’Europa in declino.
La linea, caratterizzata da un frontale basso, appuntito e da una coda affusolata, ci riporta al tempo glorioso di un’Italia che creava oggetti in movimento capaci di competere con l’aria in quanto a linea e soluzioni ingegneristiche. Ferruccio Lamborghini era uomo volitivo, visionario, senza paura di combattere a muso duro con gli standard dell’epoca, tra cui Enzo Ferrari. Ora che ci rimangono le sue vecchie auto, ora che l’azienda – dopo vari passaggi di proprietà – appartiene dal 1998 all’AUDI, cosa ci rimane di quello spirito sognatore?
I discorsi che sento da conoscenti annoiati e sazi sono sempre gli stessi. «Sono in attesa che mi arrivi il SUV» dice uno. Avrà due monitor LCD sul retro dei poggiatesta, così i bambini durante i viaggi non li senti “lagnare”. Un altro ha già un’auto importante, ma la usa poco (fa in media 5000 km annui); del resto lui e sua moglie in città si muovono con il motorino. Tuttavia, giusto per smuovere un po’ il piattume, non sa se comprarsi l’auto nuova (ovviamente potente e inquinante) o una rumorosissima Harley Davidson.
La tecnologia dell’auto è rimasta la stessa dal 1876, anno in cui Nikolaus August Otto inventò il primo motore a quattro tempi, eppure da allora l’ultima innovazione glamour è stata un misero LCD. Per fortuna ci sono eccezioni: l’ibrido è in espansione; si sta inoltre organizzando una primitiva rete di approvvigionamento elettrico veloce. Tutto ci dice che le auto a combustione interna sono ormai da decenni dinosauri pronte per l’estinzione, sulla scorta della quale l’amore di Mike e Eddie sembra proprio quello di paleontologi per i fossili di un antico splendore.
Le auto sono state dei pezzi della nostra vita. Il solo riconoscimento che oggi dobbiamo ad alcune è uno standard artistico, pari almeno a un busto di Bernini o a una pala d’altare di Caravaggio. È il caso della nostra struggente Urraco. Ma dov’è l’oggetto del futuro capace di farci sognare allo stesso modo? L’impressione è che non sarà costruito in un’Europa preoccupata di mantenere lo status quo di un’economia ancora basata sul fossile, incapace di anticipare il futuro.
Ora che la Urraco è stata restituita all’antico splendore, e Mike si é divertito ad avere a che fare con il famoso V8, si chiedono: «perchè venderla? Teniamocela!». Sono in Piazza Grande a Bologna, in mezzo ad un raduno di centinaia di Lambo. Se potessi l’acquisterei io. Rimarrei in attesa dell’invenzione di una macchina del tempo, poi la porterei indietro per correre sulle strade di una Italia che la “mancanza” aveva fatto bella, coraggiosa, intraprendente.
Mi spedirei – perché no? – anche nel futuro. Al mio avveniristico arrivo a Piazza Grande, troverei ancora auto a combustione interna? Ferruccio Lamborghini è stato figlio di contadini, ma seppe coniugare il pragmatico spirito padano con studio, applicazione e diffusa capacità imprenditoriale. Spererei di trovare stessa fiducia e coraggio, liberate però dall’asfissiante presenza di uno stato regolatore e onninvasivo, quella “mala bestia” – come la definì don Luigi Sturzo – che col suo paternalismo umiliante mortifica le energie più vitali dell’individuo. La domanda infatti è: tra nostalgico passato e fosco futuro, il nostro paese ha ancora le condizioni sociali e politiche per produrre non auto, ma uomini come Ferruccio Lamborghini?
Vincenzo Carboni
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