“… perché non hanno fatto
delle grandi pattumiere
per i giorni già usati
per queste ed altre sere …”
Fabrizio De Andrè, Il cantico dei drogati
Non è proprio di tutti gli autori condensare in un titolo tanti significati tutti diversamente legati alla trama del romanzo. Con Sotto la faccia ci si ritrova davanti a una possibilità del genere, ma per riuscire a capirlo, come tutte le cose che meritano attenzione, bisogna leggere a fondo. Si può partire dal sostantivo faccia. È un termine dal suono duro, scritto per colpire, perfetto per questo libro che apre le tende di un teatro tragico e racconta una storia amara.
Oramai penso che è mio destino essere sempre sotto la faccia. Un predestinato della sfiga.
La faccia è anche il termine per descrivere un gioco di carte, nello specifico la carta su cui puntare una cifra. Non è abilità, solo fortuna. Da questo piccolo indizio, dato all’ancora ignaro lettore, Giuseppe Pizzola racconta, vestendo i panni del narratore esterno. La sua scrittura è raffinata e corposa, usa periodi molti lunghi in cui la descrizione è la regina incontrastata, in antitesi con una trama molto timida. Talvolta i suoi interventi nel racconto si presentano sotto forma di note a piè pagina, il che gli permette di avvicinarsi al lettore in modo originale e simpatico, annullando la distanza imposta dai ruoli scrittore-lettore. Lo si potrebbe definire un fotografo narrativo: ogni dettaglio della scena che inquadra è descritto nitidamente e con cura, immortalato con parole scelte. L’autore plasma termini affannati e pieni di passione. Le immagini che creano sono sature di una profonda bellezza capace di indurre i lettore concedersi del tempo per rileggere e assaporarne ancora l’essenza.
L’autore ha un rapporto molto particolare con il tempo e lo spazio del suo racconto. In un primo approccio alla lettura può lasciare il lettore piuttosto spaesato, come in mezzo a una strada nuova e senza cartelli. Non si trovano indicazioni, solo qualche breve accenno, lasciato senza troppa attenzione: ci sono salti temporali accennati in poche parole o con brevi spazi bianchi tra un periodo e un altro; per il luogo, invece, indica coordinate sintetiche e asciutte del tutto secondarie, senza alcun valore per la buona riuscita del suo messaggio.
In pieno stile verista, i personaggi di cui il nostro scrittore parla – attraverso la sua lente descrittiva – sono uomini dannati, senza corpo, connotati da battute e nomignoli, che si susseguono in un turbine immutato di gesti folli e autodistruttivi.
Non è facile entrare nel mondo di Pizzola, non è facile comprenderlo o accettarlo, perché racconta l’eviscerazione di un vizio senza scampo, di gente rimasta ai margini della realtà che si considerano e vengono considerati avariati, reietti.
Come ogni racconto che si rispetti anche Sotto la faccia ha il suo “eroe” che si erge come esempio e voce di tutti i suoi simili. Infatti, il romanzo in realtà potrebbe sinteticamente definirsi il privatissimo diario di un giocatore d’azzardo: Samuele.
Cazzo Sam, sei un fenomeno. Senza vergogna. Mi devi quasi quattro milioni, me ne ridai solo due alle otto di sera, ti giochi gli altri che mi dovevi, anzi addirittura di più e mi vieni a richiedere indietro quelli che mi hai appena restituito? Che dire? Un fenomeno!
Pizzola glissa sui dettagli della vita di Sam per capitoli, scegliendo ancora una volta di non spiegare, descrivendo e basta. Chi è il nostro giocatore lo si comincia a capire solo oltre la metà del racconto.
La forma di Samuele è delineata da una fittissima rete di pensieri che si intrecciano continuamente passando da monologhi a lunghissimi flussi di coscienza. Fiumi di parole esprimono la sua persona e la sua esistenza, frasi pesanti e scure come il catrame delle sigarette che gli soffocano il respiro.
Sam si trascina in una vita che odia e ama alternando compassione e disprezzo per se stesso. Nel groviglio di sensazioni rigurgitate dal nostro giocatore prevale l’angoscia e la lotta contro un’aspettativa di vita consapevolmente persa da anni.
Esaltati inni alla sua natura ribelle e avulsa dalla routine si scontrano con lunghi soliloqui i cui finali sono scanditi da violenti attacchi di pianto. Il nostro Samuele è un buco nero capace di identificarsi come tale senza sforzi ogni volta che decide di far cadere il suo velo di Maya. Immedesimato nel ruolo della vittima del sistema si scaglia contro il suo destino infelice, determinato a insistere instancabilmente per continuare a galleggiare in quello stagno di cui capisce con imbarazzo di essere un pesce piccolo. Lui lotta con l’unica arma che pensa di avere, l’unica che in realtà vuole usare: la sua instancabile fame per gioco. Il dolore di Sam è costante e sottopelle, una verità confermata giorno dopo giorno, carta dopo carta. Il rigetto per se tesso è autentico, nascosto a stento tutto la superficie.
La sua ossessione per il trionfo sempre a portata di mano ha la malignità di una legge del contrappasso: sfugge dalle mani del nostro dannato, ma è sempre lì pronto a farsi acciuffare, raggiungibile in un soffio grazie al mistico «metodo giusto».
Neanche Marika può salvare Samuele. Marika, il soffio di aria pura, l’altro lato della vita.
… So che tu potresti essere l’uomo della mia vita, quello che nei rari momenti di tranquillità mi fa stare bene, riesce a farmi sorridere e mi intriga. Ma la malattia, o la passione, o il vizio, chiamalo come meglio credi, ti pervade dalla testa ai piedi in modo cinico e spietato … Chi tenta di avvicinarsi viene fiaccato, annientato, distrutto. È una lotta impari che non può essere combattuta e non ha senso combattere … È mio dovere salvare la mia vita e così facendo paradossalmente, salvo anche la tua.
Con queste parole sincere e spaventose si spegne l’unica luce della vita di Samuele. La sua vita e la quotidianità descritta da Pizzola appare un trappola incolore in cui ogni cosa diventa polvere. Il nostro eroe è succube del suo sistema contro il sistema, della sua immagine distorta e della sua voglia di non cambiare niente, di lasciare ogni giorno identico al precedente e di restare chiunque lui sia davvero.
“… Mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello
cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito …”
Fabrizio De Andrè, Il cantico dei drogati
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